sabato 21 dicembre 2013

Un'infinità di piccole ore

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 20.12.2013

E' il titolo di un libro che ho letto anni fa, An Infinity of Little Hours (non mi pare sia mai stato pubblicato in italiano). Era la storia vera di cinque ragazzi che negli anni Sessanta entravano come novizi nell'ordine certosino, e delle vicissitudini della loro vocazione. Il libro in sé me lo ricordo poco: quel che mi è sempre rimasto impresso è il titolo.
Tra dieci giorni finisce il 2013 e tra tre mesi esatti avrò 38 anni.
Se mi guardo allo specchio vedo un uomo che sembra più giovane della sua età, che sembra persino più giovane delle foto di cinque anni fa. Ha le tempie più grigie e l'attaccatura dei capelli più alta, tutto lì. Ma il tempo è passato comunque, e certe mattine mi chiedo dove stavo io quando è successo.
Sono fortunato e lo so. Non sono ricco, ma nemmeno povero, e oggi vuol dire tanto. Ho una mezza dozzina di amici ferocemente leali, e questo vuol dire anche di più. Ho scritto dei libri. Non sono diventati best seller, ma c'è un po' di gente che li ha letti e ad alcuni sono pure piaciuti. Sono stato perdonato al di là del lecito e del sensato. Ogni tanto ho parlato faccia a faccia con gli dèi.
Ho la Sindrome di Peter Pan. Ma un Pan tanto meno furbo di quello di OUAT.
Sono ciclotimico. Guardo il calendario tutti i giorni e ho paura delle fasi lunari.
Sono un hippie riuscito a metà, coi capelli lunghi e il sorriso sghembo e una nuvola sul cuore. Vorrei essere Tom Bombadil, o il Radagast di Peter Jackson. Vorrei correre nei boschi su una slitta trainata da conigli e tenere un insetto stecco sotto la lingua e non sapere nemmeno cos'è il futuro.
Certi giorni mi sento il Dottore di Tennant, che si credeva il padrone delle leggi del tempo. Certi altri il Dottore di Matt Smith, quando guarda in camera con quegli occhi che sembrano vecchi di diecimila anni. E certi giorni il Dottore di John Hurt, che ha già vinto ma non se lo ricorda più.
Non capisco che età ho. In realtà non l'ho mai capito.
Ogni tanto incrocio sul cancello la mia vicina di casa, che è una bella ventenne bionda di una testa intera più alta di me (ok, questo non è difficile, lo so!) Ma ieri era una ragazzina ossuta con gli occhiali che sembrava caduta fuori da un teen drama. E se non era ieri, era al massimo il mese scorso.
Ma il tempo è passato, e io non so se me ne sono accorto.
Un'infinità di piccole ore.

lunedì 9 dicembre 2013

Vita nell'acquario

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 09.12.2013

È più di un mese che non posto nulla, un po' perché non ho tempo e un po' perché non ho granché da dire. Qualche giorno fa però mi è capitata una cosa che mi ha portato a riflette sulla mia abitudine di riferirmi al mondo dell'editoria italiana come all'"acquario".
Chi lo conosce sa bene che a conti fatti è un ambiente piccolo e, come in un acquario, i pesci sono relativamente pochi, girano avanti e indietro in uno spazio ristretto, si incontrano in continuazione e, se non si conoscono proprio tutti l'un con l'altro, non sono mai a più di una singola persona di distanza da chiunque altro. (Se poi dall'ambiente editoriale tout court ci si sposta in specifico all'ambiente del fantastico lo spazio si fa ancor più stretto. Quasi claustrofobico.)
Ora, venerdì scorso sono uscito con una persona di cui non farò il nome (se mi leggi, ciao! ) e abbiamo passato una divertentissima serata in cui, tra le altre cose, ho appreso tutta una serie di dettagli imbarazzanti sulla vita privata di vari colleghi. Non che non ne conoscessi già parecchi, anche se questi erano particolarmente ridicoli e compromettenti, ma il punto è proprio questo: ne conosco già molti, e quasi ogni volta che chiacchiero per più di dieci minuti con qualcuno dell'acquario ne saltano fuori di nuovi.
Il che mi porta inevitabilmente a domandarmi: e di me cosa dicono, quando non sono presente? O meglio ancora: se io conosco tutti questi dettagli privati di altra gente che certo si meraviglierebbe di scoprire che io li conosco, quanta gente sa di me cose che io non crederei mai fossero uscite dalla cerchia degli amici più stretti, o peggio dalle quattro mura di un edificio?
La faccenda si sgonfia abbastanza se si considera che io non ho granché da offrire in termini di scheletri nell'armadio degni di venir descritti a sussurri ai tavoli di un pub, ma la mia istanza permane. E mi fa riflettere sul fatto che in effetti in un acquario i pesci ci stanno per essere guardati, che se ne rendano conto o meno. Anche quando si stanno facendo soltanto i pesciosi affaracci loro.
Il risultato è che io, che di base non sono una persona paranoica, certe volte lo divento. E non solo se penso all'acquario editoriale: anche senza fare logori discorsi sulla privacy nel nostro mondo, ci sono acquari ben più grossi in cui nuotiamo tutti quanti...

lunedì 4 novembre 2013

Dopo Lucca Comics & Games 2013: messaggio in bottiglia

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 04.11.2013

Non farò un reportage su Lucca. Un po’ li invidio, quelli che ci riescono. Io torno sempre a casa talmente frastornato che mi serve minimo una settimana per elaborare quel che è successo in quei due o tre.
Quest’anno in particolare mi è sembrato tutto “dippiù”. Non so se è vero, intendiamoci, ma ho avuto l’impressione che fosse tutto “a volume più alto del solito”. Più gente, più colori, più rumori, più stimoli, più cose da fare. L’unica cosa che mi è sembrata molto più scarsa del normale è stata il tempo, e infatti non sono riuscito a vedere e salutare tutti, né a dedicare il tempo che avrei voluto a ognuna delle persone che ho incontrato. Per quanto può valere, chiedo scusa, sinceramente!
Nel complesso l’esperienza è stata gloriosamente schiacciante e assolutamente bellissima (mamma mia che brutta espressione!!...), ma…
Ma c’è un aspetto che mi ha colpito e che mi sono portato a casa come un retrogusto cattivo in bocca. Parlando con amici e colleghi ho avvertito un diffusissimo e innegabile senso di impending doom. La sensazione di stare in mezzo a una folla che fissa l’orizzonte contando i secondi prima dell’arrivo della Grande Onda che spazzerà via ogni cosa.
Di fianco a ogni discorso pieno di entusiasmo sulle cose che cambiano, sulle novità imminenti, su tutto quel che prima non si poteva fare e adesso si può appariva di fisso lo spettro dell’Apocalisse: l’editoria italiana è al crollo, verremo annegati dai brutti libri e poi spariranno persino quelli, nessuno legge, tutto è al capolinea, tutto chiuderà e per farla breve, con generalizzazioni tipicamente italiche, per l'Italia non c'è più nulla da fare.
Ora. Sarà che sono – mio malgrado – una persona poco paziente e mi rompo le palle in fretta (non mi sto vantando di un mio difetto: è una cosa che nella vita mi ha dato solo problemi e che non riesco ancora a correggere). Sarà che – come a tanti italiani – mi piace fare l’anticonformista da due soldi e se tutti vanno da una parte a me vien voglia di andare dall’altra. Ma qui mi pare di capire che la posizione da ribelle di sto cazzo (ossia la mia) sia diventata avere speranza e mettersi in testa di cambiare qualcosa.
Come si fa, non lo so. Ma so che adesso lo faccio.
E comincio col mandare il mio primo messaggio in bottiglia a chi ha voglia di starlo a sentire:
le recensioni negative non servono a un beneamato.
O meglio. Chi le scrive può avere mille motivi per farlo sui quali io non ho nulla da questionare, e personalmente non auspico affatto la loro sparizione, ma se lo scopo di un stroncatura è contribuire al miglioramento del panorama librario, quello scopo viene mancato del proverbiale chilometro.
Stroncare – in maniera intelligente o cretina, seria o ironica che sia – i libri che non ci piacciono non contribuisce in alcun modo alla diffusione dei libri che ci piacciono. Allo stato attuale delle cose, in cui ancora mancano moltissimi elementi strutturali per cambiare la situazione, l'unico modo per diffondere di più i libri che ci piacciono è, banalissimamente, diffonderli.
Se pensate che un libro valga, fatene comprare a qualcun altro un’altra copia.
 
Una
cazzo
di
copia.
 
Fatelo in diecimila e avrete cambiato qualcosa. Non fatelo e non sarà cambiato niente.
E adesso, siccome fa radical chic e anche un po’ cheesy, cito pure Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.”

martedì 29 ottobre 2013

Storie di fantascienza che è fantascienza pubblicare


ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 29.10.2013

In questi giorni mi è capitato di leggere Il diario segreto di Phileas Fogg di Piliph Josè Farmer, un romanzo di fantascienza di quarant'anni fa (da noi uscito in Urania nel 1990).
La storia parte dall'idea di prendere tutti i particolari stonati, le sviste e i dettagli che non tornano nel Giro del mondo in ottanta giorni e di raccontare su quelli la "vera" storia di Fogg e degli altri personaggi di Verne, che qui diventano agenti segreti in una secolare guerra fredda tra due razze aliene clandestine sulla Terra, combattuta a colpi di messaggi cifrati, armi extraterrestri e tecnologia occulta.
E' un'idea fica, e il risultato è un romanzo breve, divertente, rapido, un po' steampunk ante litteram, non scritto particolarmente bene (il che per Farmer era una specie di marchio di fabbrica) ma che intrattiene a dalla prima all'ultima pagina, e che quasi mi vergogno di non aver scoperto prima della settimana scorsa.
Ora, tralasciando il fatto che è un romanzo di fantascienza e ultimamente mi sento dire spesso che la fantascienza è agonizzante se non morta (convinzione peraltro diffusa solo in Italia, dato che sul mercato internazionale a me pare goda di ottima salute), lo immaginate un libro come questo pubblicato oggi in Italia?
Lo immaginate scritto oggi in Italia, proposto a una casa editrice, stampato su carta, diffuso nelle librerie?
Materiale per riflessioni…

domenica 13 ottobre 2013

C'è questa immagine che mi torna in mente spesso...

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 13.10.2013

Sparta, Ottavo secolo a.C. Nel palazzo dei re, dopo cena, un aedo canta l'Iliade. I convitati sono rapiti dal primo all'ultimo, ascoltano a pugni stretti e a occhi sbarrati.
Sul fondo della sala, due guerrieri veterani si scambiano occhiate tra lo schifato e lo spazientito.
"Ma questo Omero non l'ha mai visto un duello? Ma mica si possono tirare colpi in sequenza a quel modo!"
"E gli scudi non si rompono a quella maniera lì! Cazzo, non è minimamente realistico!"
"E i salti? Li senti sti guerrieri come saltellano? Che è, una battaglia o un balletto??"
Un ospite vicino a loro si gira e sorride: "Magari non è del tutto realistico, ma dài, è proprio bello! A me piace comunque."
I due lo guardano storcendo la bocca.
"A me no. Impossibile sospendere l’incredulità con tutti questi errori tecnici."
"Ma sto Omero non poteva prendersi un consulente militare? Leggersi un libro su come si duella?"
"Ma va', perché mia sforzarsi? Tanto è eeepica!"
"Ma perché dobbiamo restar qui ad ascoltare sto poema da bimbiminkia?..."

(E ricordate che, tra quelli che stanno leggendo qui in questo momento, c'è chi ritiene che i due guerrieri abbiano ragione)

sabato 14 settembre 2013

Possiamo ridere dei nostri eroi. O no?

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 13.09.2013

Nel 2008 avevo iniziato a scrivere un romanzo intitolato I quaderni di Azazel, dove introducevo per la prima volta il personaggio omonimo che qualche anno dopo è confluito come comprimario in Quando il diavolo ti accarezza. Era un urban fantasy altamente ironico in cui prendevo in giro (o perlomeno ci provavo) tutti i cliché dell'urban fantasy che avevo letto negli anni, ossia in sostanza letteratura americana.
Gli editori me lo bocciarono sistematicamente, spiegandomi che "facevo ironia su cose che il pubblico italiano non conosceva quasi per niente", e quindi non avrebbe capito le mie battute. Fosse vero o meno – in realtà non ho mai smesso di domandarmelo – abbandonai il libro a metà e da allora non l'ho più ripreso.
A più di cinque anni di distanza, l'urban fantasy americano è ovunque anche nella terra degli spaghetti: dai libri ai fumetti, dal cinema ai telefilm. Forse adesso – mi dico – il pubblico italiano le capirebbe, le scene ironiche e le prese in giro che avevo in mente ai tempi. Salvo poi sentirmi dire da più parti che "l'ironia nel fantasy non tira neanche un po'!" Guai a scrivere fantasy ironici, i ragazzi si incazzano, non ti leggono, vogliono cose serie, loro.
E volte, che per esperienza personale, ho l'impressione che sia vero…

venerdì 13 settembre 2013

Marchiato a fuoco: il mio primo incontro con Jim C. Hines


ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 12.09.2013

La settimana scorsa mi capita per le mani un urban fantasy dell'anno passato, Libriomancer di Jim C. Hines. Non conosco l'autore, ma il concept del libro mi incuriosisce e inizio a leggere.
Rimango blastato.
La storia, in sé assolutamente classica, racconta le avventure di un mago-bibliotecario che ha il potere di tirare fuori gli oggetti dai libri (se a questo punto il vostro primo pensiero è "Ma non è un’idea nuova!! L’ho già vista qui, lì e anche là in fondo!!..." fatevi un favore e chiudete questo post).
Nel romanzo i libri, in virtù del loro essere "esperienza condivisa" (tantissime persone leggono tutte la stessa cosa) sono finestre sull'inconscio collettivo, da cui chi è dotato del potere giusto può trarre materializzazioni di pensieri diffusi. Il fondatore di questa setta di maghi è ovviamente Gutenberg, che si è inventato questo tipo di magia perché non era assolutamente capace di farne altri, e ha stampato e diffuso la Bibbia in modo da poterne tirare fuori il Santo Graal e diventare immortale.
Mi state seguendo ancora?
Quello che Hines ha scritto è forse il fantasy più nerd che mi sia mai capitato sotto gli occhi, e uno dei più ironici. E non è un urban fantasy che fa ironia sull'urban fantasy – cosa abbastanza normale – ma un urban fantasy che fa ironia sulla letteratura urban fantasy. E quindi su noi che la leggiamo. E su noi che la scriviamo.
Solo nelle prime cinquanta pagine ci sono più trovate di quante a me ne verrebbero in un anno. Ci sono non-umani che provengono dai romanzi e quindi sono plasmati dallinconscio collettivo, e i maghi si disperano perché i vampiri via via stanno smettendo di essere brutti mostri pieni di debolezze per diventare sexy supeheroes quasi inarrestabili, perché lacqua santa li lava, i crocefissi li fanno ridere e il sole anziché bruciarli li fa luccicare. Ci sono maghi che indossano trenchcoat pieni di tasche per tenerci tanti paperback, che si lanciano in battaglia con addosso gli scudi deflettenti di Dune e brandendo la spada laser di Obin Wan Kenobi, che guadagnano l'accesso a luoghi proibiti usando la Carta Psichica del Dottore (ma non sono mai riusciti a far funzionare un Cacciavite Sonico), che usano la pozione rimpicciolente di Alice per intrufolarsi in un edificio crollato a cavallo di un ragno. E non vi ho detto neanche un decimo di quel che c’è nel libro.
Per quanto mi riguarda, Hines è un genio. È uno che ha preso il genere, lo ha piegato su sé stesso ed è riuscito a farlo funzionare comunque, anzi persino meglio. Uno che si è letto tutto il leggibile nerd e ne ha fatto uno strepitoso gioco di citazioni. Uno che ha tirato fuori dalle pagine – letteralmente – i vampiri di Twilight e ha capito come trasformarli in una serissima minaccia planetaria. Vi rendete conto?
Dopo la lettura di Libriomancer io mi sono ritrovato sostanzialmente con due pensieri (entrambi alquanto scontati, ma tant'è). Primo: devo correre a leggere il secondo volume della serie, Codex Born. Secondo: il fantasy che produciamo in Italia, tutto il fantasy che produciamo in Italia, a partire da quello che produco io, è indietro anni luce.
Anni luce.

mercoledì 21 agosto 2013

Lupi ed editori


ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 21.08.2013

C'è un film di vent'anni fa, Wolf, con Jack Nicholson e Michelle Pfeiffer, che racconta del quieto e remissivo caporedattore di una casa editrice che viene morso da un lupo mannaro e si riscopre lupescamente aggressivo. I nerd della mia generazione di solito se lo ricordano, se non altro perché a quell'epoca vedere lupi mannari sullo schermo era cosa piuttosto rara.
Ora, a un certo punto del film il protagonista sta parlando col suo capo che gli ha appena annunciato di averlo rimpiazzato con uno stronzetto più giovane e più ambizioso di lui. Al che il protagonista, tranquillo come sempre, risponde: "Per quello che vale, questo è quel che ho imparato in trent'anni di lavoro. Tratta gli autori da esseri umani. Mai lesinare le copie per le recensioni. E mai costringerli a rispettare le scadenze, o ti daranno solo delle brutte copie."
Quando ho visto questo film al cinema avevo 18 anni, non avevo la minima nozione del mondo editoriale e tutto mi aspettavo nella vita meno che di fare lo scrittore.
Oggi, a vent'anni di distanza, ogni tanto mi sorprendo ancora a domandarmi come avesse fatto a capire già tutto quello che c'è da capire, quel vecchio lupo mannaro con la faccia di Jack Nicholson.