martedì 28 ottobre 2014

Ho guardato il pilot di Constantine

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 28.10.2014

Nei mesi passati ho visto – più o meno di sfuggita – le varie discussioni sul fatto che il personaggio nel telefilm non avrebbe fumato, i rant contro la fedeltà al modello, i dubbi dei fan, le mille ipotesi. Per mio conto (e da non lettore del fumetto, è onesto dirlo) l'unica cosa che mi veniva da domandarmi era: come accidenti faranno a proporre oggi un'icona urban fantasy (anche se all'epoca la chiamavano horror) degli anni Novanta? Come pensano di presentare un personaggio del genere al pubblico del 2014 dopo la Hamilton, dopo Harry Dresden, dopo Supernatural e non farlo sembrare una copia di qualcosa di già visto tante, troppe?
E il telefilm mi ha risposto con chiarezza disarmante: partendo esattamente da dove avevamo lasciato.
Il pilot non perde un solo fottuto secondo a spiegare quel che non serve spiegare. Niente tirate sugli angeli, sui demoni, sul Cielo e l'Inferno, sul mondo nascosto, sull'ignoranza degli esseri umani comuni: è dato tutto per scontato. Quasi si sente il rumore dei pensieri degli autori: il pubblico di un telefilm come questo lo sa come si comportano gli angeli postmoderni. Lo sa cosa fanno i maghi con addosso il trench. Lo sa come si tratta coi demoni.
I personaggi di una storia di questo tipo – che più classica non si potrebbe – ormai possono persino auto-citarsi, prendersi per il culo da soli per come si vestono, ironizzare sui sigilli magici copiati da internet.
Che il risultato finale sia buono o meno, questa presa di consapevolezza merita da sola una standing ovation.
Aggiungete un po' di ironia da UF all’americana piazzata (quasi) sempre al momento giusto e un attore protagonista insolitamente espressivo, e capirete perché, contro le mie stesse aspettative, il pilot di Constantine mi ha fatto alzare il pollice.

giovedì 2 ottobre 2014

Camminare in cerchio

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 01.10.2014

Spesso usato come sinonimo di "non andare da nessuna parte".
Ma può anche essere un atto rituale, o magico.
Da quando ho iniziato a scrivere ho sentito dire (e urlare, e sputare, e piagnucolare) di tutto sulla scrittura.
Ho sentito dire che le regole esistono per essere capite e seguite e che le regole esistono per essere capite e infrante. Che si dovrebbe leggere solo di pancia, e che si dovrebbe leggere solo di testa. Che solo con la corretta applicazione della tecnica un libro può venir bene, e che solo con la spinta di un afflato interiore un libro può venir bene. Che seguendo le regole chiunque può scrivere un libro decente, e che nessuno può scrivere un libro decente senza ispirazione. Che non si nasce scrittori ma si può diventarlo, e che scrittori si nasce e basta.
Ho sentito dire che il talento non esiste, esistono solo il duro impegno e la preparazione. E ho sentito dire che il duro impegno e la preparazione non servono a una ceppa senza talento.
Quest'eestate Andrea Atzori, una delle persone più intelligenti che troverete in circolazione, mi ha offerto una prospettiva diversa: quella secondo cui un grande libro può uscire solo da una grande persona.
Essendo questo per me un periodo di riflessione, ci sto riflettendo molto. E non riesco a smettere di farmi una domanda: e se alla fine si stesse camminando in cerchio?
Se dopo aver studiato sui libri e/o imparato con la pratica, dopo aver seguito le regole e dopo averle infrante, dopo aver analizzato, sezionato, ricostruito, accettato, rifiutato, riso, pianto e urlato, non si finisca per tornare a un'unica, semplicissima verità di base: che per scrivere un Grande Libro bisogna essere Grandi Persone?
Che sia la grandezza umana l'unica virtù che uno scrittore dovrebbe coltivare, persino (anche se non necessariamente) a scapito di altre doti come la preparazione tecnica e/o l'ispirazione?
Che sia questo (o che perlomeno c'entri con questo) quel concetto poco definibile che di solito si chiama "talento"?
Faccio pure un passetto più in là: e se anche solo per scrivere un Libro Decente fosse necessario, first and foremost, essere Persone Decenti?
Molte popolazioni antiche sostenevano che il linguaggio degli Dèi è la poesia. E forse nessuno è riuscito a esprimere il contetto meglio dei popoli celtici, che dalla poesia sono più o meno ossessionati (provate anche solo a leggere l'antico poema irlandese The Cauldron of Poesy). Una delle caratteristiche fondamentali del linguaggio poetico è che, pur possedendo tecniche e tradizioni, può essere prodotto solo in maniera "viscerale", e recepito profondamente allo stesso livello. O, per dirla in altro modo, la poesia ha la sua tecnica ma "funziona" davvero solo quando sia chi la scrive che chi la legge la "sente".
Ma, mi direte voi, tu ti occupi di narrativa, mica di poesia!
Un bel po' di tempo fa mi è capitato di esprimere un concetto affine a questo a una persona molto amante della scrittura tecnica, che ha avuto una reazione vagamente inferocita e ci ha tenuto a spiegarmi che con queste "idee vaghe e fumose" non si va da nessuna parte, e che le persone intelligenti non hanno tempo tempo per "queste cose".
All'epoca non ci ho pensato, ma oggi, con la prospettiva del tempo, non riesco a non domandarmi quanta di quella rabbia non fosse semplicemente figlia della paura.
La paura di dover camminare sul filo senza la rete di sicurezza di un sistema collaudato, infallibile e razionale, e infallibile perché razionale. Una semplice (ma non banale) paura dell'ignoto.
Se così fosse, mi sa che avrei poco da rimproverare a chi si arrabbia. Perché quella paura ce l’ho anch’io, e non poca.
Di domande continuo a farmene, e di risposte continuo a non trovarne, ma oggi ho almeno un'ipotesi: che il talento sia (o che perlomeno col talento c'entri) una reazione alla paura. Non quella di chi non ha paura del filo e del vuoto che c’è sotto, o finge di non averne: quella di chi sul filo ci cammina lo stesso.