venerdì 16 maggio 2014

Quando scherzi e la gente ti prende sul serio, ovvero L'Assedio Parte Seconda

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 15.05.2014

E adesso vi aspettate pure le Grandi Rivelazioni da me su come risanare il mondo dell'editoria?
Da me?
Io al massimo ma proprio al massimo posso dare i numeri (mi viene naturale, soprattutto dopo un bicchiere di tè al limone con l'OKI). E posso parlare di me stesso, che è l'unica forma di nascisimo politically correct quando non volete parlare di cose che non conoscete. Ma vi avverto subito che saranno numeri e parole alquanto banali, perciò se volete rimanere delusi potete cominciare da qui e non andare avanti.
Se sono un autore di genere – il mio ad esempio è l'urban fantasy – devo capire in fretta due cose:
a) se ho un pubblico che legge nella mia lingua
b) di quante persone è composto.
Mettiamo il caso che il pubblico dell'urban fantasy in Italia sia – dico un numero a caso – di 10.000 persone (e scendendo a casi meno ipotetici io ritengo che nella realtà siano di meno).
Ok, io so che è per quelle persone che sto scrivendo. Può sempre darsi che chi non legge il tuo genere prenda in mano – per un motivo o per un altro – il tuo libro, lo legga, gli piaccia e decida di andare avanti, ma fidatevi, per esperienza posso dire che nel nostro paese è un caso abbastanza raro da non fare statistica.
Da questo numero bisogna togliere tutte le persone che so in partenza che non riuscirò a raggiungere, ovvero quelle che non sapranno dell’esistenza del mio libro: poniamo che questo dimezzi la cifra iniziale.
Poi devo togliere tutte quelle che, pur leggendo urban fantasy, non avranno interesse per il mio specifico sottogenere o per il singolo volume che sto proponendo. E se, faccio calcoli sul medio-lungo periodo, devo togliere anche quelli a cui il mio libro non piacerà, e che difficilmente mi concederanno una seconda chance. Seconda divisione per due (sempre in termini puramente esemplificativi).
Mi rimangono 2.500 potenziali lettori. Questo è il pubblico al quale mi rivolgo quando scrivo. Da qui in avanti si tratta solo di farsi i conti in tasca: in termini di rientro – denaro, fama, soddisfazioni, proposte di matrimonio – posso impiegare parte del mio tempo per perseguire questo scopo?
E' la stessa domanda che si fanno gli editori, anche se in proporzioni diverse. A un grosso editore non conviene pubblicare un libro per 2.500 persone. In termini pratici un singolo libro che vende 50.000 copie costa meno di 20 libri che ne vendono 2.500, ed è per questo che – banalissimamente – la grande editoria preferisce la letteratura mainstream al genere.
E a uno scrittore, conviene?
La risposta è al 100% individuale. Dipende tutto da quello che vuoi. Se il tuo obiettivo primario è diventare ricco e famoso, il mio consiglio è non scrivere genere, o meglio ancora non scrivere in italiano, o meglio di tutto non scrivere affatto, ma fare qualcosa di più redditizio.
Al capo opposto della scala c'è chi scrive solo per te stesso o per chi vuole leggerlo "se capita" (ma esistono davvero i leggendari individui che pensano questo in tutta sincerità? Presentatemene uno e io in cambio vi presento il mio yeti domestico, promesso). Questi, se esistono, non devono nemmeno porsi il problema. Beati loro.
A metà tra i due casi ci sono io, e tanti altri scrittori come me, che vogliono essere letti dal più vasto pubblico possibile ma entro termini ragionevoli, e che lo fanno anche e soprattutto perché amano farlo. E quindi si fanno i loro conti.
Questa è la via d'uscita dal castello assediato, la sola che io conosca. Decidi quali fortezze vale la pena difendere – e i motivi per difenderle possono essere i più vari – e quali no. Non so se gli editori possono fare lo stesso ragionamento: non sono mai stato un editore. Forse loro sono costretti a combattere la loro guerra tutti i giorni in ogni maledetto avamposto di confine, altrimenti l'impero cade. Una posizione che personalmente non invidio propro.
Nel mio caso specifico, io posso scrivere anche solo per 2.500 persone. Di fatto posso scrivere anche solo per 250. Perché ho già un lavoro che mi dà da mangiare, non ho un affitto da pagare né un mutuo, mi resta tempo per fare altro e lo dedico volentieri a scrivere libri se non proprio gratis, anche solo a compenso molto modesto. E perché sono – molto semplicemente – innamorato del mio piccolo pubblico, che negli anni mi ha dimostrato un affetto e un etusiasmo che non avrei mai e poi mai creduto possibile. Per il mio piccolo pubblico io continuerei a pubblicare ebook a 3 euro su Amazon se a un certo punto gli editori non mi volessero più. Potrebbe succedere domani. Potrebbe essere già successo.
Non diventerò ricco e famoso. Non mi manterrò neppure con la scrittura. Non verrò invitato in televisione o all'estero. Non prenderò pacche sulle spalle e sorrisi untuosi alle Feste Importanti. Ma so quali fortezze voglio difendere. So in quale castello voglio vivere.
E no, non è una roccaforte di confine.

mercoledì 14 maggio 2014

L'assedio

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 14.05.2014

Se lavorate nel settore dei libri, a qualunque livello e in qualsivoglia mansione, la siege mentality è il vostro pane quotidiano. E' opinione diffusa (per usare un eufemismo) che sia in corso una guerra e che la stiamo perdendo, anche se nessuno – e sottolineo nessuno – ha ben capito chi sia il nemico. Ma si sa, quando vivi in un castello assediato e i viveri cominciano a scarseggiare ti importa fino a un certo punto che divisa portano gli assedianti.
Volendo dare una panoramica generale e non esaustiva:

- i grandi editori si sentono assediati dai librai che non li prenotano abbastanza, dalla crisi economica che non mette soldi in tasca al pubblico e dal mercato che fa i capricci e non vuol più stare alle regole tradizionali;

- i piccoli editori si sentono assediati dai librai che non li prenotano, dalla crisi, dal mercato e dai grandi editori che invadono il 90% dello spazio disponibile;

- gli scrittori pubblicati da grandi editori si sentono assediati dagli editori che non li considerano, dal pubblico che non li capisce, dai librai che non li prenotano abbastanza, dai blogger che li recensiscono;

- gli scrittori pubblicati da piccoli editori si sentono assediati dal pubblico che non li capisce (e li snobba), dai librai che più che non prenotarli abbastanza non li prenotano per niente, dai blogger che li recensiscono e in più li odiano;

- gli scrittori autopubblicati si sentono assediati da così tante parti che per amor di brevità è meglio non elencarle;

- i blogger solitamente si sentono assediati da altri blogger;

- chi non fa nessuno dei suddetti mestieri ma lavora in editoria si sente assediato dal fatto che se le cose vanno male in azienda le teste saltano, e magari la prossima è la sua.

Ogni tanto capita di sentire qualcuno che si professa tranquillo e felice, ma è uso non credergli: o mente (ci sono sempre un sacco di buoni motivi per farlo) o non ha capito la situazione (perché gli ha mentito qualcuno altro). Dopotutto si può restare sdraiati a prendere il sole anche sul ponte di una nave da crociera che affonda, no?
Oppure si può andare a prendere il sole in spiaggia, via da barche che imbarcano acqua e da castelli dove di acqua ce n'è troppo poca.
Perché è vero che ti possono sempre dichiarare guerra, ma questo non ti costringe automaticamente a combatterla. Soprattutto se per difendere un castello di confine perso in mezzo al nulla, che si farebbe tanto prima a evacuare.
Come si fa, dunque?
Ve lo racconto un'altra volta.

sabato 10 maggio 2014

Il gioco d'azzardo del pubblicatore di libri

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 09.05.2014

Il vago odore di carta stampata che il Salone di Torino diffonde in questi giorni (ci farò un salto anch'io domani, con amici) e un paio di avvenimenti che mi sono capitati di recente mi offrono l'occasione per condividere un aneddoto a mio parere illuminante.
Qualche giorno fa parlavo con una cara amica e collega con la quale ho collaborato molto nel settore editoriale, una donna acuta, spiritosa e di un'intelligenza sprecata per il nostro paese. Discutendo di un romanzo storico-fantastico che fatica a trovare una collocazione editoriale, ho suggerito – in tono serio, non tanto per dire – che magari si sarebbe potuto usare Da Vinci’'s Demons come benchmark. La mia interlocutrice è scoppiata a ridere. Una risata palesemente spontanea, sincera, amaramente divertita.
"Eh, magari" ha aggiunto.
E in quelle due parole che venivano dopo una risata io ho sentito un intero abisso di nostalgia per un mondo mai esistito, un mondo ideale dove in Italia si può usare Da Vinci’s Demons come benchmark per un romanzo storico-fantastico.
Un mondo ideale in cui in Italia si può discutere di come pubblicare un romanzo storico-fantastico.
Un mondo ideale che esiste davvero, ma non qui.
Mai qui.
Io non parlo quasi mai del mercato editoriale, se non per scherzarci sopra. C'è chi è convinto che sia un disastro e si debba fare qualcosa. Chi è convinto che sia un disastro e non ci sia più niente da fare. Più o meno tutti ritengono di sapere perfettamente "di chi è la colpa" (che varia dal pubblico beota agli editori incapaci, dalla crisi economica al governo, dalla cultura a internet, dalle stelle avverse ai Rettiliani).
Io di certezze ne ho poche, e me le tengo belle strette.
Una è che vengono spese ogni giorno energie immani in sforzi che alla fine non portano a niente: sforzi per scrivere libri che non verranno mai pubblicati (non avete la minima idea di quanti, credetemi), sforzi per promuovere libri che non venderanno mai, sforzi per comprare a decine o centinaia di migliaia di euro i diritti per libri che poi non rendono un centesimo della spesa, sforzi per diffondere libri belli, sforzi per diffondere libri brutti, sforzi per qualunque cosa.
Un'altra certezza è che ogni libro che scrivi e pubblichi può sempre essere l'ultimo. Non importa chi ti pubblica, non importa se hai già lettori, non importa se i tuoi libri precedenti sono andati bene o male: il prossimo che scrivi potrebbe semplicemente non interessare a nessun editore, per mille motivi non sempre razionalmente comprensibili. E oltre a quella linea non si va, punto.
Ma la certezza più importante, l'unica che per mia scelta determina il corso della mia vita, è che in questo complicato, dispendiosissimo gioco d'azzardo io so qual è il mio posto.
Il posto di chi smette di giocare.
Di chi ha smesso ieri.
E ora ha una gran voglia di farsi una passeggiata sul lungolago, che fuori c'è il sole.