lunedì 24 ottobre 2016

Una Parola per domarli, una Parola per trovarli...


Ed ecco che dopo due mesi di silenzio (non annunciati, lo so…) la Capanna riapre i battenti. 
Sì, è da agosto che non aggiorno il blog, principalmente per due motivi: il primo è, tanto per cambiare, il tempo libero, che ultimamente ha scarseggiato alquanto (quest’autunno le mie attività extracurricolari – sport, corsi e quant’altro – sono raddoppiate di numero). Il secondo è un po’ più difficile da spiegare. 
Di recente mi è capitato sempre più spesso di tirar fuori, parlando con amici e conoscenti, il mio sospetto di vecchia data che la stragrande maggior parte della comunicazione umana sia finalizzata al solo e unico scopo di manipolarci a vicenda. 
Sulla questione sono già stati versati oceani di inchiostro, che in questa sede non mi interessano. Il mio punto di partenza è molto più banale: un bel po’ di anni fa, ormai, ho letto un libro (che trovate anche nella bibliografia del blog) intitolato Stoned Free: How to Get High Without Drugs, ovvero un manuale – spassosissimo anche al di là dell’uso pratico – sui mille modi per raggiungere stati di coscienza alterata senza assumere sostanze chimiche. 
Tra i suggerimenti del libro ce n’era uno che mi aveva colpito in modo particolare: stare zitti. Decidere volontariamente di non parlare per giorni o anche settimane (se possibile in termini pratici), come un antico monaco votato al silenzio.

Cito direttamente dal libro, pag. 151, in traduzione mia: 
“Anche dopo un giorno soltanto, potreste sentirvi invasi da un senso di estrema soddisfazione. Persa la capacità di manipolare gli altri, perderete anche il bisogno di controllare le cose attorno a voi. […] Potreste sorprendervi a sorridere senza alcuna particolare ragione.”
Queste poche righe mi sono rimaste piantate nel cervello per anni. Finora non ho mai tentato l’esperimento (anche se due anni fa ho vissuto per un breve periodo come ospite in un’abbazia benedettina, dove credo di aver passato almeno un paio di giorni di seguito senza dire una parola), ma sono certo che prima o poi lo farò. Cionondimeno, l’idea della comunicazione come tentativo costante di manipolazione non mi ha più mollato. A volte mi sforzo di farci caso (sempre più spesso, ultimamente), di osservare me stesso mentre parlo e domandarmi perché lo sto facendo: quante volte in un giorno apro bocca per comunicare semplicemente un concetto, e quante invece per tentare di indurre il mio interlocutore a dire, fare, pensare qualcosa da cui io possa trarre un qualche vantaggio?
È un esercizio spiazzante, e qualche volta vorrei non averci mai pensato. 
Scrivere, in quanto forma di comunicazione, rientra nella stessa problematica, che sia scrivere un romanzo o buttar giù un post per Facebook o per un blog. Al di là dell’umano desiderio – legittimo o meno – di fare sentire la propria voce al mondo, che cosa intendo realmente fare quando scrivo “in pubblico”? 
Nel campo io sono – nel bene e nel male – un autodidatta, non ho imparato a scrivere sui manuali o in corsi di scrittura, ma sono consapevole che tutto quel che si insegna in qualunque curriculum finalizzato allo stendere narrativa si riassume in qualcosa di ben preciso: i mezzi pratici migliori (si suppone e si spera) per indurre il lettore a pensare, immaginare, provare emotivamente quel che vuole lo scrittore. Tutte le nozioni sull’argomento, dai suggerimenti più banali tipo “rispettate il punto di vista dei personaggi” ai semi-deliranti discorsi sugli esperimenti che dovrebbero provare la maggiore efficacia neurologica di alcuni stili di scrittura rispetto ad altri, non fanno che puntare a quest’unico scopo. 

Chi si ricorda di Svengali?
Certo, mi direte, scrivere narrativa è tutto un altro paio di maniche rispetto al tentare di “manipolare a chiacchiere” la gente per ottenere qualcosa di concreto. E la mia risposta è: “Solo fino a un certo punto”.
Chiunque scriva lo fa per una o più ragioni, che a seconda della singola persona possono essere sincere verso se stesse o meno, come pure “ammirevoli” o “deplorevoli” se giudicate secondo una griglia morale a vostra scelta. Personalmente, quando mi chiedo da solo “Perché stai scrivendo questa storia?” (o questo articolo, o questo post), in genere mi rispondo “Perché mi sembra che valga la pena raccontarla”. Ma che cosa c’è davvero dietro? La voglia di sentirmi dire “Ma quanto sei bravo”? Il tentativo di convincere qualcuno che ho ragione io, che la mia visione del mondo è quella corretta e le altre sono da buttare? Il semplice gusto di sfoggiare le mie conoscenze, perché i miei lettori possano esclamare “Accidenti quante cose sa Luca Tarenzi!…”? 
Domande cretine, forse. O domande inutili. Resta il fatto che io non riesco a liberarmene con un’alzata di spalle, soprattutto perché mi rendo conto che si trascinano dietro un’ultima domanda ancora più importante (almeno per me): al di là di qualunque ipotetica valutazione morale, in un mondo già così insopportabilmente saccente e pseudo-furbo io voglio essere la persona che mette in atto tutte queste manipolazioni? È questa l’idea che voglio avere di me stesso, davanti allo specchio che mi aspetta in bagno al mattino ancor prima che davanti a chi mi circonda? 

Una risposta per il momento non ce l’ho. Di scrivere non ho smesso: sto finendo la prima stesura di Poison Fairies III proprio in questi giorni, ho altri progetti per l’immediato futuro e, come vedete, sono tornato anche qui sul blog, sebbene i miei dubbi mi abbiano azzittito per due mesi.
Ma certe domande non se ne vanno a dormire insieme a te la sera, e possono paralizzarti non meno di un kanashibari...

mercoledì 24 agosto 2016

Un anno in Capanna




Ecco un tipico partecipante al Castlefest.
Il tizio con le corna in primo piano,
invece, non so chi sia
Ho aperto questo blog proprio un anno fa, il 24 agosto 2015. 
Da allora sono passati 365 giorni, 30 post (escluso questo che state leggendo) e un certo quantitativo di vita, che a volte mi sembra tragicamente troppo e altre volte tragicamente troppo poco. 
Sono abbastanza soddisfatto dei miei post anche se avrei voluto riuscire a scriverne di più. Ma mi sono reso conto che per pubblicare solo cose che abbiano un minimo di senso e di potenziale interesse, anziché “scrittura web” buona solo per acchiappare un tot di visite ogni giorno… be’, serve tempo. Più di quanto pensavo di averne. 
In ogni caso non intendo fare bilanci sul blog (a voler ben vedere ne ho già fatti qui il Natale scorso), ma ho deciso di condividerne qualcuno sulla mia vita in generale. Quindi, se dell’argomento non vi frega niente, è meglio se skippate oltre! 

Riflessione n. 1 
Non sono stanco. Non so se lo avete notato anche voi, ma “sono stanco di questo”, “sono stufo di quest’altro”, “non ne posso più di quest’altro ancora” e affini sono tra le frasi più comuni che si leggono in qualunque conversazione on line. Io ho deciso che non sono stanco. Che le cose che non mi vanno nel mondo o nella mia vita non sono un buon argomento di conversazione. Che, se devo parlare, mi piace molto di più farlo delle cose che NON mi irritano, NON mi hanno stufato, NON vorrei veder sparire dalla faccia della Terra. In altre parole, mi piace parlare di cose fighe. E scusatemi è se non è trendy. 

Riflessione n. 2  
I want to get real.
All’apertura di ogni concerto degli Omnia (che se non lo sapete sono la mia folk band preferita) il loro frontman, il cantante-compositore-stregone-archeomusicista Steve “Sic” Evans, si rivolge sempre al pubblico con una frase che suona più o meno “This is real music for real people, we are real players, these are real instruments, we are really here and so are you!” E questo per me è diventato una specie di mantra: qualunque cosa faccio ora, voglio che sia qualcosa di vero per persone vere, me stesso in primis. Vera magia, vere amicizie, vere emozioni, veri viaggi, veri libri per veri lettori. Io voglio esserci dentro fino al collo, e voglio che ci siate dentro voi, sempre. Per un mondo di plastica non c’è più posto, non c’è più tempo e soprattutto non c’è più nessun interesse. 

Riflessione n. 3
Dopo attenta riflessione e svariati congressi di dibattito con nessuno, sono arrivato alla banale conclusione che Facebook mi piace, e non è un’invenzione degli Dèi del Male. Per me che lavoro buona parte della giornata al pc, Facebook è niente di più e niente di meno che la possibilità di lavorare in una sorta di immenso open space virtuale in cui lavorano con me tutti i miei amici. In un open space reale ci si parla da una scrivania all’altra, si esce a fumare insieme, ci si incontra alla macchinetta del caffè: allo stesso modo con Facebook io posso far pausa ogni volta che posso/voglio e chiacchierare con amici che magari stanno dall’altra parte dell’oceano ma sono comunque “lì con me”, a rendere meno pesante la mia giornata di lavoro (e io a rendere meno pesante la loro, spero…) Non so a voi, ma a me non sembra poco. 
Un ufficio dove ALCUNI vorrebbero lavorare...
Semmai – altra constatazione banale – quel che NON si deve fare è usare Facebook per le cose alle quali non serve, o peggio nelle quali è dannoso. In questo senso, per me è importantissimo avere nel mio spazio solo persone con le quali VOGLIO avere a che fare. 
Ci ho messo un po’ a capirlo, perché quando ho aperto il mio profilo nel 2013 l’ho fatto anche perché stava per uscire il mio Godbreaker e le prenotazioni in libreria erano tristemente basse, problema al quale speravo di porre un po’ di rimedio rendendomi più visibile on line.
Con il tempo, avendo finalmente capito che di vendere i miei libri non me ne frega granché, e anzi sono potentemente avverso all’idea di auto-pubblicizzarmi, ho cominciato – prima inconsciamente, poi con piena intenzione – a trasformare il mio profilo da spazio pubblico in cui accettavo più o meno tutti a spazio privato in cui può entrare solo chi dico io (il che non significa che non ci siano anche miei lettori, ma sono tutte persone che ho piacere di “frequentare”, con ovvio e inalienabile diritto di recesso da entrambe le parti). L’opera di selezione è ancora in corso e ci sono elementi che devono ancora essere eliminati, ma un passo per volta. 

Riflessione n. 4
Non ho più molta voglia di cose facili. Non so, sarà l’età, ma in questa fase della mia vita mi scopro sempre più spesso a desiderare sfide più impegnative, a qualunque livello: argomenti più difficili da studiare, discipline fisiche più difficili da padroneggiare, viaggi più difficili da portare a termine, libri più difficili da leggere e libri più difficili da scrivere. Voglio credere davanti a me stesso di essermi upgradato al di là della facilità.

Riflessione n. 5
La scena dell’occultismo italiano (se di “scena” si può parlare in un paese come il nostro) oggi è un disastro di proporzioni bibliche, ancora peggio di quel che ricordavo una decina d’anni fa. Per cui non me ne vogliate, vi prego, se continuo a non frequentarla e sono fermamente intenzionato a non farlo in futuro. 

Riflessione n. 6
Collegandomi alla riflessione precedente, tento di rispondere una volta per tutte a una richiesta che mi viene fatta con una certa regolarità: IO NON PRENDO ALLIEVI. E non per spocchia o per chissà quali altre astruse ragioni ma perché semplicemente io non posso insegnare nulla a nessuno, tantomeno la magia o lo sciamanesimo. Io NON sono un maestro: sono uno studente, e pure abbastanza lento. Fidatevi, non imparereste niente da me che non potreste trovare da soli nei libri di testo, spiegato meglio di quanto potrei fare io.

Riflessione n. 7
“Uscire dalla propria comfort zone” è uno dei concetti più fraintesi – e ciononostante più ripetuti a pappagallo – dalla nostra società. 

Riflessione n. 8
Meno chiacchiere, più magia! 

Boh, non mi viene in mente altro da aggiungere. Penso però che sarebbe bello se tra un anno fossimo ancora qui, a festeggiare la seconda candelina della mia piccola Capanna. In attesa di quel momento, mi voglio permettere di esprimere il mio attuale programma di vita rispondendo con sincerità alla domanda dell’adorabile Black Philip qui di lato.
E la mia risposta è “YES”

giovedì 18 agosto 2016

Recensioni, o i diavoli alla finestra


...Ed ecco che torno a parlare di letteratura. Stavo per dire che lo faccio contro la mia volontà, ma non è vero: se davvero non volessi scrivere un post, non lo farei. Diciamo allora che lo faccio contro il mio stesso buonsenso, e riproponendomi di smetterla una buona volta (come Alice, anche io mi so dare degli ottimi consigli, ma non sono tanto bravo a seguirli…)

Di recente mi hanno chiesto – ancora una volta – “Ma perché non cominci a scrivere recensioni?”
In realtà era da un bel po’ che non succedeva, ma per una serie di ragioni la domanda questa volta mi ha fatto riflettere. Chi mi conosce sa che non solo non ne ho mai scritte, ma in genere non ne leggo nemmeno, e soprattutto non leggo quelle che mi riguardano (a meno che qualcuno non mi chieda espressamente di farlo, e ogni tanto ho risposto comunque di no). 
Ora però voglio spiegare una volta per tutte perché non scrivo recensioni e non ne scriverò mai (a meno di subire un trauma cranico con annessa inversione della personalità o di essere sostituito da un ultracorpo): io ritengo – e ho motivo di ritenere – che recensire, nella forma in cui lo si intende oggi, sia un atto indebito, inutile e in contraddizione intrinseca con se stesso.

Recensori che abbiamo amato...
Facciamo un po’ di chiarezza. 
Un conto è consigliare – o sconsigliare – un’opera (d’ora in poi userò sempre questo termine generico, visto che il discorso vale più o meno allo stesso modo per libri, film, telefilm, fumetti e altri prodotti affini) perché ci è piaciuta e pensiamo possa piacere a chi ha gusti simili ai nostri. È quel che faccio anch’io in questa sezione del mio blog, anche se di rado e solo quando me ne viene voglia. In questo caso si sta esprimendo un giudizio del tutto personale, esplicitamente soggettivo, e lo si fa – almeno spero – perché è naturale provare gusto nel consigliare qualcosa che ci è piacito (specularmente, sconsigliare di nostra pura iniziativa quel che non ci è piaciuto, senza che nessuno ce lo abbia chiesto, mi sembra un atto già un po’ meno legittimo sul piano dell’etica e del buon gusto, ma soprassediamo). 
Un conto del tutto diverso è recensire nell’accezione moderna e “tecnica” del termine. Una recensione oggettiva pretende di basarsi su criteri oggettivi, ossia universali, precisi, sempre spiegabili e validi in qualunque caso. 
Prendiamo come esempio le recensioni negative (il discorso funziona anche con quelle positive ma con quelle negative è più facile; oh quanto è più facile…) Se io volessi recensire negativamente e in maniera obiettiva un film o un libro non potrei dire che fa schifo perché, che so, mi è antipatico l’argomento di cui parla: dovrei invece spiegare che è scritto male o girato male, che i personaggi non sono psicologicamente credibili, che gli attori sono dei cani, che il montaggio è fatto a cazzo, che gli archi narrativi non hanno senso, che la storia straripa di infodump, che manca lo show don’t tell o altre amenità assortite che abbiamo letto e sentito tutti un milione di volte di troppo. 
In altre parole, per fare una recensione obiettiva serve necessariamente una griglia di riferimento. È da quella che deriva tutta l’ipotetica obiettività: la mia recensione ha un valore intrinseco perché non si basa su opinioni o gusti miei, che in se stessi valgono quanto quelli di chiunque altro, ma sull’applicazione sistematica di una serie di criteri fissi, elencabili, studiabili e soprattutto sempre validi. 
Se si parla di libri, posso decidere che la griglia di riferimento è una determinata scuola di scrittura o un determinato manuale; se si parla di cinema, avrò come modello una determinata scuola di cinema, o il pensiero di un determinato teorico del settore, e così via. Naturalmente posso anche crearmi una griglia mia, come sintesi di tutto quel che ho letto, osservato, studiato e valutato. O posso scegliere griglie che non hanno per forza attinenza diretta con quel che sto recensendo: un esempio molto usato è quello di chi valuta usando come criterio i principi della sua religione (ad es. un cristiano per il quale un libro che propone valori cristiani è automaticamente un buon libro, e viceversa).

E siamo arrivati al semplice nodo del problema: la scelta di una griglia di riferimento è a sua volta una scelta, ossia niente di diverso da un’opinione personale. Perché, amici miei, i criteri oggettivi e universali per la valutazione di un’opera artistica non esistono. Sono un abbaglio nella migliore delle ipotesi, e nella peggiore una mistificazione fatta in malafede. 
Un simpatico diavolo alla finestra
Non esiste né è mai potuto esistere l’equivalente di una “comunità scientifica” per i prodotti artistici e/o di intrattenimento, ed è precisamente per questo che non esiste nemmeno un peer reviewing per libri, film o simili. Il concetto stesso è assurdo, e anche un po’ ridicolo. Ci possono essere pareri genericamente giudicati più autorevoli di altri – registi o scrittori famosi, accademici quotati, scuole di critica cinematografica o letteraria – ma di nuovo non si tratta di altro che di vox populi, o più spesso del suo triste contrario (micro-gruppetti di critici inaciditi che per varie ragioni odiano i gusti del grande pubblico, e che quindi costituiscono semplicemente un “popolo” più piccolo). 
Non c’è nulla di “scientificamente obiettivo” in tutto questo, e chi cerca di farvelo credere vi sta prendendo per il culo, anche se non sempre lo sa. Magari se ne potrà riparlare quando – e se – avremo un perfetto diagramma matematico del funzionamento della mente umana con tutti i suoi processi emotivi e cognitivi: forse a quel punto potrà esistere una vera scienza della “giustezza” o “sbagliatezza” di un’opera artistica. E sottolineo forse
Fino ad allora, l’opinione personale rimarrà un diavolo che rientra eternamente dalla finestra, pur facendolo a un livello più basso, alle radici del ragionamento anziché al suo culmine. Lì è più difficile notarla, ma c’è lo stesso e continua a farla da padrone. 

Quindi, per quanto mi riguarda vengano pure tutte le analisi critiche di qualsivoglia opera basate su tutti i criteri che più vi piacciono di più, che siano le vostre esperienze personali o quelle di qualcun altro. Non sarò mai io a negare l’autorevolezza di determinati pareri, che è qualcosa di ben diverso dalla pretesa di obiettività universale: se cercate di spacciare quest’ultima a casa mia, vi garantisco che avrete più fortuna cercando di vendermi un chupacabra.

lunedì 25 luglio 2016

Un demone negli occhi

Ultimamente ho rotto troppo le palle con post dai toni vagamente polemici. Quindi ho deciso di tornare ai discorsi sugli dèi e la magia, che a quanto pare sono più socialmente innocui di quelli sulla scrittura (significativo, vero?)

Or dunque, avete mai provato a restare immobili e fissare negli occhi per lungo tempo (non per una manciata di secondi, parlo di minuti interi) il vostro viso nello specchio, o il viso di un’altra persona?
Se per caso lo avete fatto, è piuttosto probabile che abbiate cominciato a vedere cose strane. Soprattutto se eravate in penombra, con una fonte di luce indiretta fuori dal vostro campo visivo.
Un paio d’anni fa uno psicologo dell’Università di Urbino, Giovani Caputo, ha fatto alcuni esperimenti sull'argomento nell’ambito della sua ricerca accademica. Se digitate il suo nome on line troverete vari articoli sia in italiano che in inglese (ce ne sono qui, qui e qui, giusto per citarne alcuni), ma al solito vi farò io un riassunto veloce. 
L’esperimento del 2014 sostanzialmente consisteva nel mettere alcuni volontari a coppie uno di fronte all’altro in una stanza poco illuminata, lasciarli a fissarsi negli occhi per una decina di minuti e poi far compilare loro un rapporto su quello che avevano visto (come campione di raffronto, nella stanza di fianco un altro gruppo di volontari è stato messo a fissare una parete bianca). Il risultato è stato che oltre il 70% dei volontari, dopo anche meno di dieci minuti, ha cominciato a sperimentare stati di alterazione della coscienza: apparente acutizzazione dei sensi (colori che sembravano più vividi, suoni che sembravano più forti), distorsioni nella percezione del tempo, ma soprattutto allucinazioni visive. I volti fissati si deformavano, diventavano simili a musi animali o maschere mostruose o generiche figure umane archetipiche (vecchi, bambini). In qualche caso assumevano la fisionomia di persone note all’osservatore (genitori, figli, partner), sia vive che defunte. 
Sono chiaramente risultati interessanti e l’accademia ci sta ancora lavorando oggi (nel senso che gli esperimenti in materia proseguono). Caputo stesso ha ipotizzato che le allucinazioni possano essere una conseguenza del “ritorno alla realtà” dei soggetti dopo che il prolungato periodo di mancata stimolazione sensoriale ha indotto loro uno stato dissociativo. Un’ipotesi alternativa chiama in causa il fenomeno ottico del Troxler’s Fading (“Dissolvenza Troxler”), ossia quell’effetto ben noto per cui, se si fissa a lungo un punto fermo, le immagini intorno cominciano a sbiadire e alla fine svaniscono. L’ipotesi sarebbe che il cervello, in mancanza di dati forniti dai sensi, “riempie i vuoti” con materiale tutto suo proveniente da ricordi, aspettative ed esperienze pregresse (che poi è quello che succede normalmente negli esperimenti di deprivazione sensoriale). 
L’anno seguente sono stati fatti esperimenti simili con volontari messi davanti a uno specchio, e i risultati sono stati più o meno gli stessi: se lo fissiamo abbastanza a lungo, anche il nostro stesso volto muta e assume forme bizzarre. Cosa che, come dicevo all’inizio, molti di noi avranno già notato anche fuori da un laboratorio*. 

Io non sono uno psicologo e non ho titoli per prendere alcuna posizione in merito: riporto semplicemente cose che ho letto. A me tutto questo interessa perché la pratica del “fissare qualcuno o fissarsi da soli negli occhi finché il volto cambia” è ben presente in tante tradizioni magiche, anche molto antiche. 
La persona da cui ho imparato le mie primissime nozioni di sciamanesimo, un bel po’ di anni fa, mi raccontava che in Sudamerica è abitudine degli sciamani, quando fanno conoscenza di una persona nuova, fissarla “nell’occhio sinistro con il proprio occhio destro”. Questo perché nell’occhio sinistro starebbe nascosto il lato represso della personalità di ciascuno, quello che noi stessi in genere cerchiamo di non vedere né mostrare, che tuttavia lo sguardo di uno sciamano dovrebbe essere in grado di cogliere proprio grazie al “mutamento del viso” di una persona, se osservata abbastanza a lungo. Gli stessi sciamani sudamericani fanno esperimenti di questo tipo anche su se stessi, guardandosi allo specchio alla luce del fuoco, per conoscere e imparare a gestire i propri lati oscuri.
Venendo più vicino a noi, in forme di magia postmoderne come la Chaos Magic il “mutamento del viso” è praticato quasi esclusivamente allo specchio, per ottenere vari risultati. Il punto fondamentale, però, coincide proprio con quello supposto da alcuni degli sperimentatori di cui sopra: quel che si sta facendo è tirare fuori a forza da qualche punto profondo della psiche “cose” che normalmente stanno sepolte laggiù, lontano dalla nostra normale autocoscienza. E se a istinto non vi suona come una buona idea, be’, non siete i soli a pensarla così. 
Ma d’altro canto si sa che tra i praticanti di magia postmoderna il buon senso è una merce abbastanza rara, anzi non sono poche le scuole di pensiero che incoraggiano i gesti rischiosi e la sperimentazione senza rete di sicurezza. Un esempio tipico è la tecnica di magia nera che suggerisce di prendere uno specchio, scriverci dietro il nome il qualcuno che vi ha fatto girare le palle assieme a una frase che spieghi concisamente quel che volete che gli accada, poi fissarvi nello specchio finché il vostro mostro personale non emerge e ordinargli di “evadere l’ordine” scritto dietro (in realtà è un po’ più complicato di così, sto semplificando per amor di brevità e magari perchè non possiate accusarmi di divulgare incantesimi poco carini e pucciosi**)
Se tutto ciò vi pare un po’ troppo simile a un’evocazione demoniaca, è perché non si tratta di nulla di diverso: la teoria è che state usando parti di scarto della vostra psiche per dare corpo a una forma-pensiero partorita con il preciso scopo di fare del male a qualcuno. La vostra vittima dovrà vedersela con il mostro, voi dovrete vedervela con la vostra coscienza. 

Esistono naturalmente impieghi meno discutibili del “mutamento del viso”. Ad esempio c’è chi lo usa come aiuto per liberarsi da aspetti di sé che non desidera più: un modo di pensare, una brutta abitudine, una dipendenza, un sentimento sgradevole associato a qualche ricordo. La tecnica inizia allo stesso modo: fissate al vostra immagine nello specchio pensando attentamente al mostro di cui volete sbarazzarvi, e quando lo vedete apparire dovete chiamarlo con il suo nome, avvolgere lo specchio in un panno opaco e chiuderlo con qualcosa di vincolante, come una catena o una corda annodata (sono consigliati tre o sette nodi, per l’ovvia simbologia numerica). Mentre chiudete il mostro nello specchio, ditegli ad alta voce che lo state intrappolando e che intendete liberarvi di lui: fate in modo che non rimangano dubbi né a lui né a voi su quel che sta succedendo. Poi andate difilato a gettare il fagotto in un tombino, o giù da un ponte, o su un camion della spazzatura diretto alla discarica, o in un corso d’acqua che scorra in direzione opposta a casa vostra. E, se siete di inclinazione religiosa, chiedete alle Forze appropriate di portarlo il più lontano possibile da voi. 
Badate che non è mai una soluzione definitiva: il mostro che avete sfrattato con la forza è comunque una parte di voi, e prima o poi ritroverà sempre la strada di casa. Ma di certo ci metterà un po’, e nel mentre voi avrete il tempo che vi serve per prepararvi al match finale. Lo scopo di questo incantesimo è fare in modo che qualunque tecnica psicologica, terapia o percorso decidiate di intraprendere per liberarvi definitivamente del vostro problema funzioni meglio, più in fretta e con meno fatica da parte vostra. 

In chiusura, lo so che arriverà sempre la solita domanda: ma sono vere tutte queste cose, o sono solo baggianate e illusioni? È magia o psicologia quella di cui stiamo parlando? E da quando in qua quel che vedo io nel mio specchio può fare qualcosa alla vita di qualcun altro? Luca, stai tentando di prenderci per il culo come tuo solito? 
Inevitabilmente, io darò la solita risposta: non spetta a me sciogliere questi dubbi. Non lo potrei fare nemmeno se volessi. Però posso darvi un consiglio: la risposta migliore tra tutte è sempre e soltanto la prova dei fatti. 




* trovo significativo il fatto che Caputo in un suo articolo (questo) noti come i soggetti meno propensi a vedere mutamenti nel proprio volto siano quelli gravemente depressi: il loro volto non cambia quasi mai, o al massimo assume ai loro occhi una fissità gelida che ricorda le statue mortuarie 

** la tecnica completa la troverete senza fatica nei testi sull’argomento: uno è The Paradigmal Pirate di Joshua Wetzel, citato anche nella bibliografia del blog

mercoledì 6 luglio 2016

Cari scrittori, vi voglio bene ma statemi lontano


Certe volte – non spesso, ma certe volte – sono stato accusato di schivare intenzionalmente la compagnia dei miei colleghi scrittori. Non di tutti, beninteso: è ovvio che tra gli scrittori ho dei cari amici e amiche, e a dirla tutta nemmeno pochi. Eppure l’accusa in un certo senso è fondata. 
Negli anni mi hanno dato dello snob, del radical chic della scrittura, del falso scrittore (sic) e di quello che “sputa nel piatto in cui mangia”. Non ho mai avuto (che io sappia) dei veri haters, ma qualcuno a cui ho fatto occasionalmente girare le palle l’ho avuto senz’altro. In realtà è un bel po’ che non succede più, anche perché la moda di mettere al rogo gli scrittori italiani è passata da un pezzo e il pubblico ha la memoria cortissima, soprattutto quello di internet. Ma alcuni discorsi venuti fuori di recente mi hanno fatto riflettere sulla situazione in generale, e mi è venuta voglia di prendere una sorta di posizione definitiva sull’argomento (definitiva si fa per dire, sono soggetto al naturale cambiamento di idee come qualunque altro essere umano, e nei giorni buoni lo ammetto pure). 

La ragione per la quale tendo a schivare la compagnia dei miei colleghi ha a che fare con l’ikigai.

Non farò finta di essere un esperto di cultura giapponese, cosa che non sono nemmeno da lontanissimo: che cos’è l’ikigai l’ho scoperto su Wikipedia, e pure di recente. Se non lo sapete già e non avete voglia di leggerlo (lo trovate qui, oppure qui in versione italiana più sintetica), lo schemino qui di fianco ne dà un riassunto abbastanza intuitivo. 
In sostanza, nella vita una persona può fare – o trovarsi a dover fare – qualcosa che sa fare bene, qualcosa che ama davvero, qualcosa di cui il mondo ha bisogno, qualcosa che gli dia da vivere, o varie combinazioni di questi quattro elementi: l’incrocio tra quel che sai fare bene e quel che ti dà da vivere produce una professione, l’incrocio tra quel che sai fare bene e quel che ami produce una passione, e così via. Da notare che gli ultimi due elementi si possono intendere in varie accezioni: “quello di cui il mondo ha bisogno” può essere anche soltanto quello che è utile alle persone che ti sono care, che migliora la vita della tua tribù personale (il tuo “piccolo mondo”), non per forza qualcosa che cambia l’umanità intera. Allo stesso modo, “quel che ti dà da vivere” non consiste solo in denaro per pagarsi vitto, alloggio e collegamento internet ma anche – e spesso soltanto – in autostima, notorietà, plauso del pubblico o intima soddisfazione per un lavoro ben fatto. 
Nel punto di incontro di tutti e quattro i fattori c’è quello che in Giappone si chiama ikigai, ovvero “lo scopo vero della mia vita”, “la ragione che mi fa alzare dal letto la mattina”: quella singola cosa che amo sinceramente fare, che per talento e/o apprendimento so fare bene, che in qualche modo migliora il mondo attorno a me e che foraggia a vari livelli la mia esistenza. 
Mi rendo conto che uno schematismo come questo è contestabile e attaccabile da più lati, ma per amor di discussione fate finta assieme a me che le cose stiano esattamente così. 
Io credo – e non sono il solo a crederlo – che per buona parte di noi individuare il proprio ikigai sia tutto meno che una passeggiata. Io il mio non l’ho ancora trovato, e adesso che ho quarant’anni suonati la sua assenza ha cominciato a farmisi sentire come uno squillo acuto nelle orecchie, peggiore di qualunque sveglia mattutina. Di certo nei miei anni di maturità non mi sono impegnato abbastanza nel cercarlo, e ora posso solo sperare che non sia tardi e metterci tutto l’impegno che ho trascurato di metterci prima. 
Una cosa, però, la so per certa: scrivere non è il mio ikigai
Spesso ho amato farlo (soprattutto in passato); c’è chi sostiene che io lo sappia fare bene (al di là di qualunque razionale autovalutazione, questa è una cosa che non spetta né spetterà mai a me stabilire); mi dicono che in qualche caso ha “giovato alla vita” di chi mi leggeva (nel senso che gli ha fatto passare qualche ora di gradevole tempo libero); non mi ha mai dato da mangiare né notorietà degna di questo nome, ma non negherò che mi abbia dato più di una soddisfazione in senso umano.
Tuttavia – ed è un tuttavia grande come una montagna – per me questi elementi non si combinano in un vero ikigai. Non sono sufficientemente costanti, non hanno mai raggiunto una significativa massa critica. Molto semplicemente, non sono abbastanza. 
Non me ne vanto e non me vergogno: constato che è così e vado avanti nella mia ricerca (senza per questo smettere di scrive, per il momento). 

Ed eccoci arrivati al punto: la stragrande maggioranza degli scrittori che ho conosciuto nella mia vita – e intendo proprio la stragrande maggioranza – dà assolutamente per scontato che scrivere sia il suo ikigai, lo proclama ogni volta che ne ha occasione e guai al povero pazzo che si mette in testa di sostenere il contrario. 
Non negherò di certo che per alcuni sia così davvero. Ne saprei anche indicare qualcuno per nome: singoli colleghi e colleghe che ho conosciuto abbastanza bene da poter dire che sì, sul serio vivono vite in cui il perno cardinale dell’ikigai è realmente – e non solo per un’allucinazione autoindotta – la scrittura, con tutto quel che ne consegue. Ma sono una strettissima minoranza, casi davvero rari* (e che personalmente non invidio). 
Per tutti gli altri, spiacente ma si tratta di quel che ho indicato poco sopra: un’allucinazione autoindotta. Ogni tanto, se le circostanze mi sembravano favorevoli, ho invitato esplicitamente scrittori di mia conoscenza ad analizzare con spietata obiettività il loro rapporto con i quattro componenti dell’ikigai, per vedere se le cose stavano davvero come erano abituati a pensare. Alcuni (pochi) dopo mi hanno ringraziato. Altri mi hanno preso in giro. Altri ancora (di più) si sono incazzati. 
Se si decide di farsi questa domanda, i punti da analizzare meglio a mio avviso non sono nemmeno i primi due, l’amore e la competenza (ovvero i tappi di due Vasi di Pandora pronti a scatenare il caos sul mondo), ma gli ultimi due, l’utilità generale e la ricompensa ottenuta. La mia scrittura “serve” davvero a qualcosa? I cambiamenti che provoca sono significativi almeno per il mio “piccolo mondo”? Mi rende indietro le energie di cui ho bisogno per vivere bene? Se lo faccio per i soldi, mi fa guadagnare abbastanza? Se lo faccio per sentirmi battere le mani, l’applauso è abbastanza forte da farmi dormire sereno? Se lo faccio per l’intima soddisfazione personale, la sento che arriva? Se nel presente non ho ancora queste cose, è sensato ritenere che le potrò avere in futuro se mi impegno abbastanza? E una volta che le avessi, posso lecitamente supporre che sarebbero davvero quello che stavo cercando? 
Al netto di tutto questo, va da sé che per scrivere non c’è nessun bisogno che scrivere sia il tuo ikigai. Né per scrivere bene, o per scrivere con successo, o per scrivere provando gusto nel farlo. L’ikigai può essere il perno della vita, ma la vita non è fatta di solo ikigai

Insomma, ecco spiegato perché in generale – con tutte le eccezioni del caso – evito di frequentare i miei colleghi scrittori: perché è noioso parlare con i sonnambuli.


* Molti lettori di questo post mi hanno chiesto di dire chi sono. Non lo farò, ma vi dirò quanti sono: tre

lunedì 27 giugno 2016

Un racconto dal mondo di Godbreaker

Poco più di tre anni fa (per la precisione il 6 giugno 2013) usciva in libreria, pubblicato da Salani, il mio Godbreaker
In quel momento io ero al mare a Malta, e mi ricordo che i primi giorni dopo l’uscita, al mattino, scendevo nella hall dell’albergo con il portatile sotto il braccio per attaccarlo al WiFi e vedere se qualcuno mi aveva cercato su FB per dirmi qualcosa.
Mi faccio quasi tenerezza da solo, per quanto ero idiota :-D
Come libro non è stato proprio un successo commerciale (non l’ho mai nascosto), ed è già fuori catalogo dall’anno scorso, ma, per un motivo o per l’altro, tra i miei romanzi rimane ancora oggi quello a cui sono più affezionato. Per questo (ossia per la nostalgia della compagnia che mi tenevano quei personaggi) e per altri (fondamentalmente perché i lettori me lo hanno chiesto più volte e perché cullavo l’idea da un bel po’ tempo), qualche mese fa ho scritto un racconto ambientato nel mondo di Godbreaker
E oggi, quasi a festeggiare il terzo compleanno del romanzo, ho deciso di distribuirlo in pubblico.

Si intitola Il cuore di una belva, ed è una storiella breve, di sole 74.000 battute (o poco meno di 13.000 parole, per chi preferisce il sistema di conteggio anglosassone). 
È gratis. Per ora l’ho caricato su File Dropper: potete scaricarlo cliccando sul link sotto il post oppure dalla pagina qui sopra I miei scritti free, e farci letteralmente tutto quello che volete, anche metterlo in download su altre piattaforme se vi gira. È tutto vostro.
L’epoca è il Nono secolo (l’anno preciso è l’867, ma nel racconto non viene detto). 
Il luogo è Costantinopoli. 
Il protagonista è Siaghal. 
Quando aveva meno di vent’anni. 
E ovviamente si parla di dèi e di mostri, di magia e di acciaio, di sentimenti eccessivi e di scelte difficili. 


Siaghal oggi, nella bellissima
interpretazione di Fabio Babich
Fisicamente il file fa schifo e lo so. Il massimo che posso fare è chiedere scusa. Non possiedo né so usare i programmi necessari a fare un bel lavoro, quindi vi dovrete accontentare di un banalissimo, spoglio pdf senza nemmeno una copertina (come avrete intuito, non so nemmeno disegnare :-P ) 
Se in futuro dovessi imparare a fare le cose per bene, o dovesse capitarmi in mano un’immagine (free) adatta per la copertina, magari produrrò un file più gradevole alla vista e lo metterò in download gratuito al posto di questo. 

Scrivere questa storiella mi è piaciuto (limitatamente a quanto mi possa “piacere” scrivere, attività con quale in generale non ho un bel rapporto), quindi non è detto che non mi venga voglia di scriverne altre (il problema, manco a dirlo, non è tanto la voglia quanto il tempo…) Magari sul passato di altri personaggi (ipoteticamente, per par condicio a un racconto su un giovane Siaghal dovrebbe seguire un racconto su un giovane Naire), o sul loro futuro dopo gli eventi raccontati in Godbreaker.

In ogni caso, se vi va di leggerlo e poi vi piace fatemelo sapere, perché se so che c’è dell’interesse da parte vostra sono incentivato anch’io a scriverne ancora. Naturalmente si fa tutto per il puro gusto di farlo: non l’ho nemmeno messo in vendita a 99 centesimi su Amazon, anche perché, come dicevo, non sarei stato capace di produrre il file necessario. Quindi nessuno è “costretto” a fare o dire nulla, né io né voi.
Mi resta da farvi una sola domanda: avete voglia di seguire Siaghal nei vicoli bui della Costantinopoli di dodici secoli fa? ;-)


Un racconto dal mondo di Godbreaker