martedì 26 aprile 2016

Come ti lavoro l'energia


E dopo mille promesse a me stesso di aggiornare il blog almeno una volta a settimana, ho fatto passare un mese intero di silenzio. A mia discolpa posso solo dire che aprile è stato un mese impegnatissimo. E posso rinnovare il mio impegno a tentare di essere più regolare. Per il momento, finalmente sono di nuovo qui.

Quella che ho in mente oggi potrebbe non essere una riflessione tanto intelligente, ma è una cosa che mi tormenta più o meno da sempre. Ho perso il conto delle volte che, negli anni, ho storto il naso davanti a un testo di occultismo in cui l'autore dice di "lavorare" (to work with) con determinate energie, o determinati spiriti, o determinati dèi. Purtroppo è un'abitudine espressiva normale per gli autori di lingua inglese: ce l'hanno pure alcuni dei miei maghi preferiti, come Jan Fries. 
A parte il fatto che l'idea di "lavorare con un dio" a me suscita irresistibilmente l'immagine di un Odino in giacca e cravatta che si siede in ufficio, si leva l’elmo cornuto per metterlo sulla scrivania e collega i corvi al pc, nessuno mi ha mai tolto dalla testa l'impressione che non si tratti di un'espressione poi tanto "innocua" (ogni tanto l'ho sentita usare anche dagli occultisti italiani, ma non spesso - e questo magari è solo perché li frequento il meno possibile, intendiamoci - e forse è un'abitudine presa di peso dalla letteratura inglese, ma questo è un discorso diverso). 
Non tutti gli dèi moderni vanno in ufficio...
Perché hanno scelto di "lavorare" con la magia e gli dèi? Pensate anche solo che in inglese esiste il verbo to play, che significa nello stesso tempo giocare, suonare e recitare: tutte attività che con la magia ci stanno perfette. Potrei dire "I play with Gods" e intendere che gioco con gli dèi (sia nel senso di giocare assieme a loro sia in quello di giocare usando loro), che suono con gli dèi (e finora non ci sono riusciti neanche i Manowar) o che recito con gli dèi (come nel teatro sacro dell'antica Grecia). Potrei dire "I play magic" e starei dicendo che gioco con la magia, che la interpreto come un attore, che la suono come una melodia. Senza contare che nei giusti contesti to play significa anche fingere, scherzare e giocare d'azzardo. 
E invece leggo che i maghi lavorano con la magia. 
Non ci giocano. 


Sarei tentato di addossare tutta la responsabilità all'etica seicentesca di stampo calvinista in cui si è formata la società americana, che vedeva nel lavoro serio, alacre, impegnato, e nel successo pratico che ne conseguiva i chiari segni della grazia divina nella vita di una persona. D'altronde in inglese oggi si lavora pure in palestra (to work out), quando si aggira un problema (to work around) e persino quando ci si arrabbia (to get worked up). 
Ma a dirla tutta a me questa sembra solo una parte della risposta. Il vero punto temo sia la serietà. Chi scrive un testo che parla di magia vuole innanzi tutto essere preso sul serio, cosa tutto meno che scontata nel nostro mondo. Un conto è dire che sai percepire determinate energie, che la sai plasmare o peggio che sai come giocarci, un altro è dire che le usi per fare un lavoro. Il lavoro è una cosa seria. Ci vogliono abilità, preparazione e dedizione per farlo bene, e ottiene risultati pratici, verificabili. Giocare è una cosa da bambini. 
(Tra l'altro, fate caso a come tutto ciò si applichi alla perfezione anche a tanti discorsi sulla scrittura. E no, non è un caso). 

Vedete? Lui suona e se ne fotte
Ma secondo me c'è ancora dell'altro. I maghi non sentono il bisogno di essere presi sul serio solo dai loro lettori: sentono il bisogno di essere presi sul serio anche da se stessi. Perché per dedicarsi tanto a una realtà così elusiva, così difficile da definire, che assomiglia molto più all'arte che alla scienza e obbedisce (quando obbedisce) a regole finora comprese solo in piccola parte ci vuole - ammettiamolo - una gran voglia di farlo. 
Persino quando le cose funzionano a meraviglia, il dubbio che si stia perdendo tempo è sempre in agguato. E non è un problema intrinseco di chi si occupa delle cose invisibili: è un problema umano universale. Anche gli scienziati di successo ogni tanto si interrogano sulla sensatezza della loro vita e della loro attività. E pensare che, dopo tutto, si sta lavorando è rassicurante. L'idea del lavoro è solida come una sedia da ufficio: se sono seduto lì, non sto perdendo tempo inutilmente. Sto facendo cose utili, sensate. 
E fin qui nulla di sbagliato… tranne che se togli il gioco sei fottuto. 

Personalmente, ritengo di non aver mai "lavorato" con determinate cose in vita mia. Ci ho scherzato, ci ho giocato d'azzardo, le ho recitate, forse ogni tanto le ho persino suonate e cantate, ma non le voglio lavorare, mai. E non si tratta solo di decidere se volete gli dèi (per chi li ha nella propria vita) come colleghi di lavoro o come compagni di gioco: si tratta di ricordare che ritenere il lavoro una cosa da adulti e il gioco una cosa da bambini, e pensare che nella vita il primo è essenziale e il secondo superfluo è la mentalità dominante nella cultura occidentale. 
E se ti definisci un mago (o un artista, guarda caso) e abbracci la mentalità dominante, forse è meglio se vai a nasconderti.