martedì 31 ottobre 2017

Feed the Fire


Visto che stasera è Capodanno per la “gente strana” (o almeno per una parte di essa), mi sembra il momento giusto per buttare fuori qualche pensiero che mi tormenta da un po’ di tempo. 

Dopotutto Samhain è, insieme a Beltane, una delle due Feste del Fuoco, e che l’anno che verrà sarà un anno di Fuoco penso sia ormai evidente oltre ogni possibile fraintendimento. D’altronde il Fiore Rosso è una divinità indiscriminata (ne ho parlato per esteso anche qui qualche mese fa) che non dà mai nulla gratis e si prende i suoi terribili pagamenti che a noi piaccia o no. 
Il mese scorso un occultista che seguo abbastanza regolarmente, Craig Williams, faceva notare che uno dei refrain più potenti della nostra epoca è che ciascuno di noi può avere “tutto” se soltanto “ci crede abbastanza”, “ci dà dentro”, “punta in alto”, “non molla”. 
Il suo discorso (che io qui riassumo molto rapidamente, potete leggerlo per intero sul suo blog) proseguiva facendo notare come credere che you can have it all sia un’allucinazione ridicola nel migliore dei casi e pericolosissima nel peggiore. Dato che, di fatto, “crederci” e “non mollare” significa esattamente sacrificare qualcosa – e spesso molto – per quel che si vuole raggiungere.
Che per definizione non sarà mai “tutto”, anzi il più delle volte sarà meno di quanto avremmo sperato, voluto o ritenuto equo. Può non piacerci, ma è così che vanno le cose. 

Il sacrificio, che sia di tempo o energie o beni materiali o rapporti umani o quel che preferite, fa parte della natura stessa del raggiungimento: se si vuole la luce accesa, la casa calda e il cibo cotto bisogna nutrire il fuoco. 

Conosco varie persone (veramente tante, se mi soffermo a rifletterci...) che corrono da tutta la vita all’inseguimento di obiettivi più o meno lontani, più o meno realistici, più o meno comprensibili o condivisibili per me che non vivo nella loro pelle. Se poi si chiede loro – e io ogni tanto lo faccio – quanto ci credono, se non sono in un momento di crisi depressiva rispondono all’unanimità che ci credono disperatamente, con tutto il loro essere, che quell’obiettivo è il Vero Sogno della loro vita e li definisce come individui almeno quanto la carne in cui sono scolpiti. 
Una cosa che non smette mai di sorprendermi è la rapidità di questa risposta: nessuno di quelli a cui lo chiedo si sofferma mai a rifletterci, nemmeno per una frazione di secondo. In genere ne deduco che non hanno bisogno di pensarci: lo sanno e basta. Forse ci hanno già pensato a sufficienza in passato. Forse non ci hanno pensato mai e non ritengono di doverlo fare. Forse sono capaci di pensare, valutare e decidere a una velocità che io mi posso solo sognare. 
In qualche occasione – soprattutto quando si parla di libri e scrittura, perché volente o nolente è l’ambito di cui mi trovo a far parte anch’io – ho provato a insistere, a chiedere se “ne erano davvero sicuri”, se “ci avevano riflettuto bene”, visto che non si parla di raggiungimenti a breve termine o di sacrifici di poco conto. 
Stesso risultato. 
Certezze pure e dure come diamanti da ogni lato. 

E io a questo punto divento allo stesso tempo dubbioso e invidioso.
I miei dubbi li potete intuire da soli. La mia invidia, invece, nasce dal fatto che tutte queste adamantine certezze io non ce le ho. 
Posso chiaramente domandarmi quanto sia sincera o consapevole la sfolgorante sicurezza che vedo sfoggiare dall’interlocutore di turno, ma questo in realtà non sposta la questione (anche se di frequente dà al mio interlocutore un certo senso di superiorità morale: nell’attuale mondo delle idee esiste una sorta di curiosa scala gerarchica, per la quale chi si pone dubbi su se stesso è ontologicamente inferiore a chi non lo fa, e lo si può lecitamente guardare con un pochino di compatimento). 

E la questione di cui parlo è: quanto siamo autocoscienti, io e tutti quelli che mi circondano, che nutrire quel particolare Fuoco sia la migliore delle idee?  

Senza momenti di nichilismo cosmico, che qui non servono a niente, la vita ha solo il senso che le diamo. Ucciderne una parte per farne vivere un’altra – perché non dobbiamo illuderci: il Fuoco uccide, consuma e non lascia tracce – non è esattamente una decisione da prendere mentre si guida nel traffico e nel contempo si parla al cellulare. Per voler bene a una parte di noi, dobbiamo voler davvero male a un’altra. Che non è meno “noi” di quanto lo sia la prima: una la divinizziamo e l’altra la immoliamo sull’altare, ma quel che stiamo facendo, una nostra mano lo sta facendo all’altra. 
Non fraintendetemi: la mia invidia è sincera. Scegliere si deve, non ci sono alternative, e io vorrei per davvero saperlo fare con il sorriso da supereroe del “popolo del certezze”.

In ultima analisi, la sola risposta che so dare a me stesso è che la nostra è una scommessa.
Anche io nutro il Fuoco, forse più spesso di quanto creda chi mi conosce: ci butto le cose inutili, la zavorra che occupa spazio e tempo, i pensieri velenosi, le persone che ho avvicinato credendo che fossero “giuste” e non lo erano. Ma ogni volta che do alle fiamme qualcosa, sto scommettendo che la mia vita sarà più felice, più nitida, più giusta senza quel pezzo che ho deciso di mandare in cenere.
Tante volte questa scommessa l’ho persa.
L’abbiamo persa tutti, e la perderemo ancora: che il nostro sia il girone dei convinti o quello dei dubbiosi non fa nessuna differenza. 
Ma non possiamo smettere di scommettere, anche se il casinò contro cui giochiamo è vasto quanto l’Universo e il banco, si sa, vince sempre. 
Forse, però, non importa davvero quale sia la nostra puntata. Forse basta che sappiamo perché scommettiamo, non per forza per cosa. 
Forse basta che ci piaccia il gioco. 

Non so dove sarete o che cosa farete voi questa sera, ma vi auguro dal profondo del cuore che il nuovo anno sia la fiamma di una torcia, con il manico ben saldo nella vostra mano.  

Tonight, I’ll feed the Fire.

lunedì 16 ottobre 2017

Draghi da sella o draghi da macello?


Quando avevo più o meno dodici anni, d’estate, lessi un racconto di Joan D. Vinge intitolato Il re delle tempeste. Parlava di un drago che si insediava nel cavo di un vulcano spento e cominciava a vessare le popolazioni circostanti, e di un principe irritante ed egocentrico, in esilio dalla sua terra, che diventava allievo di una strega nella speranza di imparare un modo per sottomettere il drago e usarlo per riprendersi il trono.
Negli ultimi trent’anni l’ho riletto molte volte. È un racconto strano e ipnotico, che ancora oggi mi trasmette sensazioni difficili da catalogare. Il drago in questione non è in cerca di nulla, non veglia tesori e non si mangia la gente: devasta e uccide per la pura emozione che dà il potere assoluto, perché una forza distruttiva immensa come la sua esige irresistibilmente di essere usata.
Essendo una creatura elementale, quando si leva in volo attorno a lui nasce la tempesta, che con la pioggia lava via dalla sua pelle una miriade di squame multicolori, sottili come polvere d’ala di farfalla. E quando il drago si ritira lascia dietro di sé l’arcobaleno, non segno di speranza per le sue vittime ma tremenda promessa che la tempesta tornerà ancora. Martoriare la terra, però, è un’agonia per il drago stesso, che si sente letteralmente scuoiare vivo dall’acqua che lui stesso crea ogni volta che sale nel cielo. Tuttavia non può farne a meno, consapevole che (parole sue) “è nella natura del potere che lo detiene debba soffrirne, così come ne soffrono le vittime”.

Non dirò come prosegue il racconto: cercatelo, ne vale la pena. Per me quello fu il primo incontro (letterario, per fortuna) con il Drago, o perlomeno il primo profondamente significativo. Tutti noi che amiamo il fantastico ne abbiamo avuto uno. E, probabilmente, su tutti ha lasciato un segno indelebile, come il Re delle Tempeste ha segnato me quell’estate di trent’anni fa. 

Il drago, o più precisamente l’incontro/scontro dell’uomo con il drago, ha subito un evidente processo di “pacificazione” nelle storie della nostra epoca, iniziato già ben prima di Dragon Trainer. Nelle storie antiche il drago finiva ammazzato quasi di default, qualche volta portandosi dietro l’eroe (abbastanza di rado, in realtà). In quelle di oggi, spesso, con il drago si deve gettare un ponte, ragionare, dialogare (pure a suon di coccole…) e il più delle volte gli si finisce in groppa anziché nello stomaco*.
Se chiedete a qualcuno di spiegarvi perché, è quasi automatico sentire risposte del tipo che il drago nei racconti antichi raffigurava il Caos primordiale, la Natura da domare o, nelle storie a declinazione cristiana, il Diavolo e “la roba sua” (le altre religioni, ad esempio), mentre oggi il drago è più facilmente la creatura antichissima e saggia, il dio del mondo naturale, lo spirito-mentore semidimenticato, oppure il “diverso” che va avvicinato e compreso perché, a guardarlo bene, “non è poi tanto cattivo”. 
E tutto ciò a me ingenera da tempo un certo senso di colpa. Perché, a dirla tutta, le storie degli ammazzadraghi a me sono sempre piaciute un casino, fin da quando avevo le mani troppo piccole per i libri (ma non per le action figures).

E dunque, se oggi l’incontro col drago serve a educarci alla cultura del dialogo, questo che cosa fa di me?
Un violento irrecuperabile?
Un antidraghista?
Un nazi-dragonslayer??

Ci ho riflettuto davvero a lungo prima di aprire bocca qui. Parlare seriamente di draghi è un’impresa poco meno eroica che andare ad ammazzarli: si finisce a dover rimbalzare dai miti millenari alle leggende medievali, dal folclore al simbolismo, da Gilgamesh a Merlino, dall’Europa alla Cina, da Tolkien a Martin. E se non sei in grado di farlo rischi di passare per un fantasy-hipster che pontifica su cose che non conosce.
Quindi ho deciso di restringere il più possibile il mio discorso per portare avanti un unico punto. E per farlo ho pescato quattro antiche storie di scontri tra esseri umani e draghi.
Di nuovo, avrei potuto rimbalzare tra cento nomi di ammazzadraghi delle leggende, da Sigfrido a Lancillotto, da Beowulf a Uberto Visconti, da Dobrynya a Ragnar Lothbrok (sì, proprio quello di Vikings, ma per vederlo infilzare un drago dovete spegnere Netflix e leggere la sua saga).
Ho scelto quattro santi cristiani.

L’ho fatto di proposito, e per una ragione ben precisa: l’antipatia che buona parte dei pagani di oggi ostenta per tutto quel che ha appiccicato addosso l’odore del cristianesimo. Che sia un sentimento gratuito o meno è argomento – vasto e complicato – per un’altra occasione: stavolta, su questo blog pagano vi beccate la mitologia cristiana. Se non vi sta bene, nessuno vi costringe a continuare**.
Per chi è interessato ai riferimenti bibliografici, ho preso le prime tre storie direttamente dalla Legenda Aurea (che per l’agiografia leggendaria medievale è quel che l’Edda è per i miti nordici) e la quarta dalla Vita Columbae (che potete leggere qui in traduzione inglese).

So che vi aspettavate di vedere subito san Giorgio. E invece, per la gioia di tutti i miei colleghi giocatori di D&D, inizio con santa Marta che sconfigge la Tarasque. La Marta in questione è proprio quella dell’episodio evangelico di Marta e Maria le sorelle di Lazzaro, quella tipa un po’ saputella che rogna perché sua sorella sta ad ascoltare Gesù anziché aiutarla a badare a una casa piena di ospiti (e, per quanto Gesù dia ragione a Maria, io da casalingo una certa solidarietà sindacale con Marta l’ho sempre sentita…)
Statua odierna della Tarasque, al castello di Tarascona
Fin qui la storia la conoscono tutti, ma in genere solo chi è passato per la Provenza conosce anche la leggenda locale secondo cui, dopo la resurrezione di Gesù, Marta e parenti vari levarono le ancore dalla Palestina (c’erano le persecuzioni) e sbarcarono a Saintes-Maries-de-la-Mer, in Camargue. Da quelle parti, e in particolare nella città di Tarascona, bazzicava un mostro di origine mediorientale (come fosse arrivato fin lì la leggenda non lo spiega: io presumo a nuoto…) con testa di leone, corpo di tartaruga, sei zampe come uno scarafaggio e un pungiglione sulla coda, che faceva il normale lavoro dei draghi: sbucare dalle paludi e sbranare la gente. Nessun guerriero era mai riuscito a ucciderlo, ma santa Marta lo affrontò a modo suo: a colpi di Ave Maria. Ogni volta che ne recitava una la Tarasque rimpiccioliva sempre di più, finché, divenuta innocua, la santa gli mise una corda al collo la portò in città, chiedendo alla gente di passare alla nuova religione come pagamento per il servizio. E la gente lo fece, ma in un attacco di fifa popolana provvide anche a fare la pelle al povero drago rimpicciolito (esticazzi, dico io!)***


Santa Margherita del Guercino
(che non ha scordato di metterci il drago)
Di santa in santa, passiamo a un’altra che secondo me non conoscete: santa Margherita. In una delle sue leggende era un ragazza di Antiochia nel Terzo secolo, cristiana segreta in una famiglia di pagani, che finì denunciata e arrestata per aver rifiutato le avanches di un prefetto romano (e secondo me se avesse risposto “Mi spiace ma non sei il mio tipo” anziché “No grazie, sono cristiana” sarebbe campata più a lungo, ma tant’è).
Venne torturata per farla abiurare, e mentre stava in cella venne pure aggredita da un drago (ovviamente Satana, secondo la leggenda) che se la inghiottì intera. Ma Margherita era una vera santa badass – non per niente Giovanna d’Arco la vide più volte al fianco dell’Arcangelo Michele – e invece di lasciarsi digerire usò il suo crocefisso per sbudellare il drago dall’interno e sbucare fuori. 
Purtroppo i romani la decapitarono di lì a poco.

E arriviamo finalmente a san Giorgio, lo scannadraghi per eccellenza (anche se poi ne ha fatto fuori solo uno…) La Legenda Aurea piazza la sua impresa in Libia, ma in realtà la storia è venuta in Europa dall’Asia Minore, probabilmente con le Crociate: il mondo cristiano greco-ortodosso è stracolmo di santi ed eroi che sterminano draghi, demoni e mostri a destra e a manca, ci sarebbe da scrivere per giorni solo su quello!
La dinamica di questa “dragomachia” è ben nota: il drago viveva in un lago, armato di zanne, artigli e di un alito che diffondeva pestilenze, e la gente del posto, per non farsi decimare, tirava a sorte bambini e ragazzi da mandargli per cena, come ai bei tempi del Minotauro. Quando toccò alla figlia del re fu una tragedia pubblica, ma Giorgio, con il tempismo che agli eroi viene col pacchetto, passò da quelle parti e caricò il drago con la lancia. Però – attenzione – non lo uccise: lo ferì soltanto. Poi si fece dare dalla principessa la sua cintura per prendere il drago al guinzaglio e, come santa Marta, lo portò in città per riscuotere pagamento in conversioni al cristianesimo. Solo a quel punto lo uccise, e sul posto sgorgò una fonte dalle acque taumaturgiche, subito ufficializzata con una cattedrale.

E veniamo infine ai santi celtici, quella masnada di stregoni cristianizzati che imperversò nel Nord Europa per tutto l’alto medioevo volando, scacciando demoni, riportando indietro i morti e incasinando le leggi della natura peggio di una banda di Chierici di Pelor sotto anfetamine. Probabilmente neanche i santi ortodossi di cui sopra hanno fatto fuori tanti mostri e creature infernali assortite quanti loro.

La scena è stata disegnata mille volte
nella storia, ma questa è la mia
interpretazione preferita
E il loro vero frontman non è affatto san Patrizio – a cui, lo so, si attribuisce la cacciata dei serpenti dall’Irlanda, ma è un dettaglio poco interessante per il mio discorso – bensì san Columba di Iona, quel “Gandalf con la tonaca” (per usare le parole di Gordon White) che nel Sesto secolo convertì la Scozia a botta di miracoli e resurrezioni.
L’incontro con un drago (libro II, capitolo 28 della Vita Columbae) non è il momento più eclatante della sua carriera, che di per sé include imprese ben più mirabolanti, ma è comunque troppo bello per non riferirlo. Un giorno, mentre Columba e alcuni compagni di viaggio camminano lungo un fiume in una zona ancora pagana della Scozia, si imbattono in un gruppetto di persone che sta scavano la fossa per un cadavere. Interrogati, i locali spiegano che l’uomo è stato ucciso da un mostro che infesta quelle acque ed emerge per azzannare i barcaioli.
Prontamente Columba ordina a uno dei suoi compagni di buttarsi in acqua per fare da esca (giuro, la storia dice proprio così) e subito il drago riemerge per la seconda portata del pranzo. Il santo aspetta finché il mostro è appena a una lunghezza di lancia dal poveraccio che annaspa in acqua (again, è proprio quel che dice il testo): solo a quel punto gli fa il segno della croce intimandogli di togliersi dalle palle una volta per tutte, e il drago schizza via come se avesse la coda in fiamme (segue abituale conversione dei presenti).

Se non vi siete ancora annoiati di starmi dietro, vi starete domandando: ma il punto di tutto il discorso qual è?

Il punto, a mio avviso, è che la dicotomia di cui sopra – col drago antico si fanno costolette e col drago moderno si fa amicizia – è priva di senso, o perlomeno è una spiegazione inaccettabilmente superficiale. Che il drago muoia o meno non è rilevante: quel che conta è che il drago cambia.
Il cuore dell’incontro tra l’uomo e il drago è la metamorfosi. Anche nelle antiche storie di morte il drago non muore e basta: quel che fa è trasformarsi, dare origine a qualcosa di nuovo, cambiare pelle, come d’altronde è naturale per il suo genitore linguistico, il serpente (drakon in greco). E questo vale tanto per i draghi “cosmici” affrontati dagli dèi – Marduk spacca in due Tiamat e con il suo corpo forma il Cielo e la Terra, Apollo uccide Pitone e dall’evento nasce l’Oracolo di Delfi… – quanto per quelli più “terreni” affrontati dagli eroi mortali.

Torniamo alle storie dei quattro santi: in conseguenza dello scontro con santa Marta, la Tarasque già muta fisicamente quando è ancora in vita, e la morte la trasforma in un mostro processionale famosissimo e celebrato ancora oggi, tanto da venir inserito dall’UNESCO tra i Patrimoni Orali e Immateriali dell’Umanità. Tra l’altro vale la pena di notare che la santa non sembra affatto intenzionata a uccidere il mostro, anzi “se lo porta a casa” quasi volesse tenerlo come drago da compagnia: è la gente di Tarascona che dà di matto e lo fa fuori dopo essere passata alla nuova religione (conversione di una “sincerità” disarmante, che assomiglia parecchio a “Facciamo come dice la maga straniera che è meglio, manca mai che decida di usare i poteri del suo dio pure su di noi!”)

La Tarasque in versione mostro
processionale, come appare oggi
Il caso di san Giorgio è parallelo (le due leggende sono visibilmente imparentate), tanto che se togliamo la parte “più cristiana” – il santo che scanna l’avversario ormai sconfitto, apparentemente per nessuna buona ragione se non perché i mostri si ammazzano, e la santificazione del macello con un battesimo di massa e una cattedrale – quel che resta è la storia di un drago domato che si tramuta in una fonte dalle acque guaritrici (non dimentichiamo che il suo alito provocava pestilenze).
La vicenda di santa Margherita è forse la mia preferita. Proviamo a guardarla con occhio “narrativo”: abbiamo una ragazza sola e imprigionata, vittima di torture, consapevole che le resta poco da vivere. Il drago che le appare in cella e la inghiotte è palesemente troppo grande per poter entrare in senso fisico nella cella stessa, altrimenti non potrebbe ingoiare un essere umano. Non si tratta di una battaglia concreta: è un sogno iniziatico, una vision-quest. Il mostro la inghiotte, cerca di assimilarla, ma Margherita non ci sta, lotta e ne viene fuori, rimanendo se stessa.
Persino il caso di san Columba, in cui il drago viene solo messo in fuga, produce la sua metamorfosi simbolico-narrativa: un’altra fonte (non la Vita Columbae) ci informa infatti che il fiume scozzese in cui avviene la vicenda si chiama Nesa. È il fiume Ness. Il che fa dell’episodio – probabilmente – la più antica attestazione in assoluto di un’apparizione del Mostro di Loch Ness.

È chiaro che dall’incontro con il drago anche l’uomo esce trasformato: diventa un eroe o un santo o, se lo è già, raggiunge l’apice della sua carriera, perché il drago è sempre il boss finale. E certe volte diventa un po’ drago lui stesso, come Sigfrido che bagnandosi nel sangue del mostro diventa invulnerabile (anche il protagonista del Re delle tempeste fa qualcosa di simile, ma in versione più weird…) A ben vedere, neppure a Hiccup succede qualcosa di diverso: per arrivare a intendersi con Sdentato, deve imparare anche lui a “pensare come un drago”. 
Il drago e l’uomo si mutano a vicenda, sempre, perché è nella natura del primo passare attraverso metamorfosi ed è nella necessità del secondo fare del drago “qualcosa di più utile” all’universo umano. Nel loro incontrarsi, violento o meno, il legame speculare che si forma tra loro è inevitabile, e forse nessuno lo ha compreso meglio dell’anonimo autore del Beowulf, che ci racconta che, quanto l’eroe e il mostro si guardano per la prima volta negli occhi, “…nacque un terrore reciproco, nell’uno come nell’altro, decisi alla catastrofe” (versi 2564-2565). In quello che è forse il momento più toccante dell’intero poema, gli avversari si fissano e ciascuno dei due si spaventa, comprendendo di avere di fronte la propria fine.
Riflessi nei rispettivi occhi, l’eroe e il drago diventano la stessa cosa.

E dunque, draghi da sella o draghi da macello?
La risposta è “Non c’è differenza”. È solo la sensibilità specifica di ogni epoca – più diretta e brutale quella del mondo antico, più delicatina quella contemporanea – che ci dettano come declinare una storia cosmica che rimane sempre fedele a se stesa: la storia di come l’Altro ci cambia, e cambia con noi.

E tutto questo solo perché non mi va di sentirmi in colpa quando un ammazzadraghi sguaina la spada e parte alla carica :-P


* No, Smaug non rientra nella casistica: è nato di recente, ma è la fedele reincarnazione di modelli molto, molto più antichi

** Sui santi nel paganesimo di oggi e nella magia postmoderna ho intenzione di scrivere ancora in tempi brevi, in parte ispirato da questo bellissimo articolo di un mio caro amico

*** Da lombardo, non posso esimermi dal citare anche la leggenda di Tarantasio (nome verosimilmente imparentato con quello della Tarasque), il drago che infestava il lago Gerundo dalle parti di Lodi e che venne ucciso da Uberto, capostipite dei Visconti di Milano. E che appare in tre dei miei romanzi, en passant…