Da quando mi sono messo a parlare in pubblico di sciamanesimo – un tempo che ormai va misurato in anni – ho raccolto in giro reazioni molto diverse, ma ce n’è un gruppo in particolare che alla lunga mi ha fatto decidere di fare un paio di serene precisazioni, che riguardano tanto lo sciamanesimo in generale quanto me che in un modo o nell’altro ne faccio parte.
Punto primo: nonostante il nome del mio blog, che è un gioco di parole e un tributo d’affetto, io non sono uno sciamano.
Come spiego anche nella mia presentazione, tanto per cominciare presso molte popolazioni native nessuno può decidere di propria iniziativa di chiamarsi sciamano: è un titolo che può esserti attribuito solamente da qualcun altro, che sia un altro sciamano, la gente della tua comunità o simili, e solo in onore ai risultati pratici che ottieni. Cosa ancora più importante, per essere sciamani bisogna passare attraverso un’esperienza intima di profondo, radicale cambiamento, dopo la quale non ti possono restare dubbi sul fatto che nella tua vita è successo qualcosa di fondamentale.
Io spero di essere uno sciamano un giorno, ma per ora sono soltanto uno studente teorico e pratico di sciamanesimo, ossia quello che in termini moderni si definisce uno shamanic practitioner: una persona che impara e usa tecniche dello sciamanesimo, contenta di lasciare così le cose o in attesa e alla ricerca del momento in cui avverrà anche per lei un cambiamento radicale (io appartengo al secondo gruppo).
Punto secondo: praticare lo sciamanesimo non ti rende automaticamente una persona migliore.
Secondo la definizione che io trovo più calzante (ma anche se fate ricerche per contro vostro non ne troverete molte altre, provateci se non mi credete), lo sciamanesimo è un insieme di tecniche, che presuppone l’accettazione di una serie di principi e si propone di ottenere determinati risultati pratici. Di per se stesso non è una fede religiosa, anche se può diventarlo o integrarsi in fedi già presenti.
Certamente è anche una disciplina di vita e un sentiero di ricerca spirituale e quindi, come tutti i sentieri di questo tipo, dovrebbe – almeno in teoria – aiutarci a migliorare sul piano umano, ma non c’è nulla di automatico o di inevitabile in questo. Essere uno sciamano non equivale a essere un illuminato: uno sciamano non è necessariamente più buono, più saggio, più altruista, più paziente, più compassionevole né tantomeno più intelligente delle persone che lo circondano (almeno nella mia esperienza, ma fidatevi che in campo di esperienza ne ho).
In questo senso specifico, lo sciamanesimo non è diverso da tante altre discipline interiori. Un bravo sciamano è proprio come un bravo buddista, un bravo cattolico, un bravo yogi o un bravo razionalista che si dedica con impegno e passione alla sua ricerca scientifica. Ma siccome nella nostra società uno sciamano – o anche solo un semplice shamanic practitioner – è qualcosa di più esotico di un buon cristiano o di un maestro di yoga, in tanti tendono a trattarlo come una “persona superiore” a prescindere.
E non c’è nulla di più sbagliato.
Per scendere sul piano personale, tutto quel che ho scritto qui sopra si applica al 100% anche a me. Io pratico lo sciamanesimo, e questo non mi rende un maestro di saggezza: come molte altre persone che conoscete tutti, ho simpatie e antipatie ingiustificate, reagisco in base a pregiudizi automatici, dico idiozie, mi incazzo anche quando ho torto, racconto balle, mi annoio, perdo tempo, non credo a tutto quello che mi raccontano, mi offendo senza valido motivo, mangio troppa nutella e a volte tradisco la fiducia delle persone che mi vogliono bene. Non sono particolarmente orgoglioso di nessuna di queste cose e se ci riesco tento di non farle, ma sono nella stessa identica barca in cui siamo tutti. Sì, anche se posso andare in trance, parlo con gli Spiriti o so costruire un feticcio.
Magari un giorno (lo spero) le cose cambieranno anche per me, e a quel punto forse mi sentirete fare discorsi diversi. Fino ad allora, passatemi un remo, che la riva è ancora lontana.
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