Certe volte – non spesso, ma certe volte – sono stato accusato di schivare intenzionalmente la compagnia dei miei colleghi scrittori. Non di tutti, beninteso: è ovvio che tra gli scrittori ho dei cari amici e amiche, e a dirla tutta nemmeno pochi. Eppure l’accusa in un certo senso è fondata.
Negli anni mi hanno dato dello snob, del radical chic della scrittura, del falso scrittore (sic) e di quello che “sputa nel piatto in cui mangia”. Non ho mai avuto (che io sappia) dei veri haters, ma qualcuno a cui ho fatto occasionalmente girare le palle l’ho avuto senz’altro. In realtà è un bel po’ che non succede più, anche perché la moda di mettere al rogo gli scrittori italiani è passata da un pezzo e il pubblico ha la memoria cortissima, soprattutto quello di internet. Ma alcuni discorsi venuti fuori di recente mi hanno fatto riflettere sulla situazione in generale, e mi è venuta voglia di prendere una sorta di posizione definitiva sull’argomento (definitiva si fa per dire, sono soggetto al naturale cambiamento di idee come qualunque altro essere umano, e nei giorni buoni lo ammetto pure).
La ragione per la quale tendo a schivare la compagnia dei miei colleghi ha a che fare con l’ikigai.
Non farò finta di essere un esperto di cultura giapponese, cosa che non sono nemmeno da lontanissimo: che cos’è l’ikigai l’ho scoperto su Wikipedia, e pure di recente. Se non lo sapete già e non avete voglia di leggerlo (lo trovate qui, oppure qui in versione italiana più sintetica), lo schemino qui di fianco ne dà un riassunto abbastanza intuitivo.
In sostanza, nella vita una persona può fare – o trovarsi a dover fare – qualcosa che sa fare bene, qualcosa che ama davvero, qualcosa di cui il mondo ha bisogno, qualcosa che gli dia da vivere, o varie combinazioni di questi quattro elementi: l’incrocio tra quel che sai fare bene e quel che ti dà da vivere produce una professione, l’incrocio tra quel che sai fare bene e quel che ami produce una passione, e così via. Da notare che gli ultimi due elementi si possono intendere in varie accezioni: “quello di cui il mondo ha bisogno” può essere anche soltanto quello che è utile alle persone che ti sono care, che migliora la vita della tua tribù personale (il tuo “piccolo mondo”), non per forza qualcosa che cambia l’umanità intera. Allo stesso modo, “quel che ti dà da vivere” non consiste solo in denaro per pagarsi vitto, alloggio e collegamento internet ma anche – e spesso soltanto – in autostima, notorietà, plauso del pubblico o intima soddisfazione per un lavoro ben fatto.
Nel punto di incontro di tutti e quattro i fattori c’è quello che in Giappone si chiama ikigai, ovvero “lo scopo vero della mia vita”, “la ragione che mi fa alzare dal letto la mattina”: quella singola cosa che amo sinceramente fare, che per talento e/o apprendimento so fare bene, che in qualche modo migliora il mondo attorno a me e che foraggia a vari livelli la mia esistenza.
Mi rendo conto che uno schematismo come questo è contestabile e attaccabile da più lati, ma per amor di discussione fate finta assieme a me che le cose stiano esattamente così.
Io credo – e non sono il solo a crederlo – che per buona parte di noi individuare il proprio ikigai sia tutto meno che una passeggiata. Io il mio non l’ho ancora trovato, e adesso che ho quarant’anni suonati la sua assenza ha cominciato a farmisi sentire come uno squillo acuto nelle orecchie, peggiore di qualunque sveglia mattutina. Di certo nei miei anni di maturità non mi sono impegnato abbastanza nel cercarlo, e ora posso solo sperare che non sia tardi e metterci tutto l’impegno che ho trascurato di metterci prima.
Una cosa, però, la so per certa: scrivere non è il mio ikigai.
Spesso ho amato farlo (soprattutto in passato); c’è chi sostiene che io lo sappia fare bene (al di là di qualunque razionale autovalutazione, questa è una cosa che non spetta né spetterà mai a me stabilire); mi dicono che in qualche caso ha “giovato alla vita” di chi mi leggeva (nel senso che gli ha fatto passare qualche ora di gradevole tempo libero); non mi ha mai dato da mangiare né notorietà degna di questo nome, ma non negherò che mi abbia dato più di una soddisfazione in senso umano.
Tuttavia – ed è un tuttavia grande come una montagna – per me questi elementi non si combinano in un vero ikigai. Non sono sufficientemente costanti, non hanno mai raggiunto una significativa massa critica. Molto semplicemente, non sono abbastanza.
Non me ne vanto e non me vergogno: constato che è così e vado avanti nella mia ricerca (senza per questo smettere di scrive, per il momento).
Ed eccoci arrivati al punto: la stragrande maggioranza degli scrittori che ho conosciuto nella mia vita – e intendo proprio la stragrande maggioranza – dà assolutamente per scontato che scrivere sia il suo ikigai, lo proclama ogni volta che ne ha occasione e guai al povero pazzo che si mette in testa di sostenere il contrario.
Non negherò di certo che per alcuni sia così davvero. Ne saprei anche indicare qualcuno per nome: singoli colleghi e colleghe che ho conosciuto abbastanza bene da poter dire che sì, sul serio vivono vite in cui il perno cardinale dell’ikigai è realmente – e non solo per un’allucinazione autoindotta – la scrittura, con tutto quel che ne consegue. Ma sono una strettissima minoranza, casi davvero rari* (e che personalmente non invidio).
Per tutti gli altri, spiacente ma si tratta di quel che ho indicato poco sopra: un’allucinazione autoindotta. Ogni tanto, se le circostanze mi sembravano favorevoli, ho invitato esplicitamente scrittori di mia conoscenza ad analizzare con spietata obiettività il loro rapporto con i quattro componenti dell’ikigai, per vedere se le cose stavano davvero come erano abituati a pensare. Alcuni (pochi) dopo mi hanno ringraziato. Altri mi hanno preso in giro. Altri ancora (di più) si sono incazzati.
Se si decide di farsi questa domanda, i punti da analizzare meglio a mio avviso non sono nemmeno i primi due, l’amore e la competenza (ovvero i tappi di due Vasi di Pandora pronti a scatenare il caos sul mondo), ma gli ultimi due, l’utilità generale e la ricompensa ottenuta. La mia scrittura “serve” davvero a qualcosa? I cambiamenti che provoca sono significativi almeno per il mio “piccolo mondo”? Mi rende indietro le energie di cui ho bisogno per vivere bene? Se lo faccio per i soldi, mi fa guadagnare abbastanza? Se lo faccio per sentirmi battere le mani, l’applauso è abbastanza forte da farmi dormire sereno? Se lo faccio per l’intima soddisfazione personale, la sento che arriva? Se nel presente non ho ancora queste cose, è sensato ritenere che le potrò avere in futuro se mi impegno abbastanza? E una volta che le avessi, posso lecitamente supporre che sarebbero davvero quello che stavo cercando?
Al netto di tutto questo, va da sé che per scrivere non c’è nessun bisogno che scrivere sia il tuo ikigai. Né per scrivere bene, o per scrivere con successo, o per scrivere provando gusto nel farlo. L’ikigai può essere il perno della vita, ma la vita non è fatta di solo ikigai.
Insomma, ecco spiegato perché in generale – con tutte le eccezioni del caso – evito di frequentare i miei colleghi scrittori: perché è noioso parlare con i sonnambuli.
* Molti lettori di questo post mi hanno chiesto di dire chi sono. Non lo farò, ma vi dirò quanti sono: tre
* Molti lettori di questo post mi hanno chiesto di dire chi sono. Non lo farò, ma vi dirò quanti sono: tre
La risposta è NO a tutte le domande, ovviamente. Ma credo che questa analisi manchi di un fattore fondamentale per essere valida appieno: l'ambizione.
RispondiEliminaUna persona in principio non otterrà una risposta affermativa alle tue domande, ma il motivo che la fa alzare la mattina può essere l'ottenimento di un bel SI, che difficilmente si ottiene su un piatto d'argento. Il raggiungimento o meno di questo obiettivo non è da tutti, ma il successo o meno lo renderebbe in qualche modo Ikigai? (questa non è una domanda retorica. Voglio discuterne davvero)
Non manca un fattore fondamentale: ne mancano parecchi. Alla fine questo è solo un delirio mio su un argomento che mi torna regolarmente sui piedi.
RispondiEliminaLa risposta alla tua domanda, comunque, non potrebbe stare nelle ultime due domande che faccio anch'io, ovvero "Se nel presente non ho ancora queste cose, è sensato ritenere che le potrò avere in futuro se mi impegno abbastanza? E una volta che le avessi, posso lecitamente supporre che sarebbero davvero quello che stavo cercando?"
Non credo che quelle domande esistano davvero se qualcuno è davvero determinato a scegliere la stupida strada della scrittura. Parlo per esperienza personale, che è, da quanto capisco, molto diversa dalla tua. Io non so fare nient'altro. Davvero. Sono uno sciagurato che non ha mai imparato un mestiere se non quelli legati alla narrativa, il che come potrai ben immaginare è piuttosto nichilista. Ora, alla luce del tuo ragionamento posso magari dividere la categoria dei sonnambuli (che magari lo fanno per ottenere una delle cose sopra citate) da quella degli stupidi, nella quale rientro, che non possono non farlo? Davvero, sono come Willy coyote: non so fare altro se non rincorrere il grosso pennuto viola.
RispondiEliminaooook. Ho capito da dove viene la noia. Grazie per il piede di porco fra le palpebre. Adesso sono aperte.
RispondiEliminaMa il punto, vedi, non è la noia per chi insegue il pennuto per tutta la vita: quello è più che lecito, e a modo mio lo insegui anch'io, e da un bel po' di tempo. La noia è per chi lo insegue senza averci riflettuto, o avendoci riflettuto troppo poco, troppo male, con troppi preconcetti, ma intanto grida ai quattro venti (e - quel che è peggio - nelle mie orecchie) che è l'unica cosa da fareeeeeee!!...
EliminaPremessa doverosa, scrivere non è il mio "ikigai."
RispondiEliminaE non lo è per moltissimi che lo fanno. Ma se uno vuole scrivere, vuole scrivere. Se aspetta di essere indubbiamente bravo, di avere sempre piacere a farlo (anche quando rilegge per la quarta volta un manoscritto che non quaglia?), di avere riconoscimento morale e materiale, e che il mondo abbia bisogno di lui, sta fresco. E non vale solo per gli scrittori, vale anche per qualsiasi professione.
Non dubito che un sacco di gente si atteggi, si illuda (autoilluda), si metta in posa. Ma arrivare a un obiettivo è questione anche di volerci arrivare, di essere convinti che sia il proprio destino e la propria vocazione.
Non parlo per me comunque, io ho avuto buchi di molti anni nel mio impegno, e comunque i quattrini li faccio con un altro mestiere: non mi sono messo in situazioni imbarazzanti da strapelato per aver creduto di diventare un "vero" scrittore.
E già questo ti pone in una posizione molto migliore rispetto ai sonnambuli di cui ho parlato
EliminaTrovo questo post di una lucidità perfino allarmante XD Una grande lezione per molti!
RispondiEliminaIo, però, non scrivo, quindi la mia deve essere pura invidia ;) E non ho trovato ancora il mio ikigai :P
Trovo questo post di una lucidità perfino allarmante XD Una grande lezione per molti!
RispondiEliminaIo, però, non scrivo, quindi la mia deve essere pura invidia ;) E non ho trovato ancora il mio ikigai :P