ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 09.05.2014
Il
vago odore di carta stampata che il Salone di Torino diffonde in questi giorni
(ci farò un salto anch'io domani, con amici) e un paio di avvenimenti che mi
sono capitati di recente mi offrono l'occasione per condividere un aneddoto a
mio parere illuminante.
Qualche giorno fa parlavo con una cara amica e collega con la quale ho collaborato molto nel settore editoriale, una donna acuta, spiritosa e di un'intelligenza sprecata per il nostro paese. Discutendo di un romanzo storico-fantastico che fatica a trovare una collocazione editoriale, ho suggerito – in tono serio, non tanto per dire – che magari si sarebbe potuto usare Da Vinci’'s Demons come benchmark. La mia interlocutrice è scoppiata a ridere. Una risata palesemente spontanea, sincera, amaramente divertita.
"Eh, magari" ha aggiunto.
E in quelle due parole che venivano dopo una risata io ho sentito un intero abisso di nostalgia per un mondo mai esistito, un mondo ideale dove in Italia si può usare Da Vinci’s Demons come benchmark per un romanzo storico-fantastico.
Un mondo ideale in cui in Italia si può discutere di come pubblicare un romanzo storico-fantastico.
Un mondo ideale che esiste davvero, ma non qui.
Mai qui.
Io non parlo quasi mai del mercato editoriale, se non per scherzarci sopra. C'è chi è convinto che sia un disastro e si debba fare qualcosa. Chi è convinto che sia un disastro e non ci sia più niente da fare. Più o meno tutti ritengono di sapere perfettamente "di chi è la colpa" (che varia dal pubblico beota agli editori incapaci, dalla crisi economica al governo, dalla cultura a internet, dalle stelle avverse ai Rettiliani).
Io di certezze ne ho poche, e me le tengo belle strette.
Una è che vengono spese ogni giorno energie immani in sforzi che alla fine non portano a niente: sforzi per scrivere libri che non verranno mai pubblicati (non avete la minima idea di quanti, credetemi), sforzi per promuovere libri che non venderanno mai, sforzi per comprare a decine o centinaia di migliaia di euro i diritti per libri che poi non rendono un centesimo della spesa, sforzi per diffondere libri belli, sforzi per diffondere libri brutti, sforzi per qualunque cosa.
Un'altra certezza è che ogni libro che scrivi e pubblichi può sempre essere l'ultimo. Non importa chi ti pubblica, non importa se hai già lettori, non importa se i tuoi libri precedenti sono andati bene o male: il prossimo che scrivi potrebbe semplicemente non interessare a nessun editore, per mille motivi non sempre razionalmente comprensibili. E oltre a quella linea non si va, punto.
Ma la certezza più importante, l'unica che per mia scelta determina il corso della mia vita, è che in questo complicato, dispendiosissimo gioco d'azzardo io so qual è il mio posto.
Il posto di chi smette di giocare.
Di chi ha smesso ieri.
E ora ha una gran voglia di farsi una passeggiata sul lungolago, che fuori c'è il sole.
Qualche giorno fa parlavo con una cara amica e collega con la quale ho collaborato molto nel settore editoriale, una donna acuta, spiritosa e di un'intelligenza sprecata per il nostro paese. Discutendo di un romanzo storico-fantastico che fatica a trovare una collocazione editoriale, ho suggerito – in tono serio, non tanto per dire – che magari si sarebbe potuto usare Da Vinci’'s Demons come benchmark. La mia interlocutrice è scoppiata a ridere. Una risata palesemente spontanea, sincera, amaramente divertita.
"Eh, magari" ha aggiunto.
E in quelle due parole che venivano dopo una risata io ho sentito un intero abisso di nostalgia per un mondo mai esistito, un mondo ideale dove in Italia si può usare Da Vinci’s Demons come benchmark per un romanzo storico-fantastico.
Un mondo ideale in cui in Italia si può discutere di come pubblicare un romanzo storico-fantastico.
Un mondo ideale che esiste davvero, ma non qui.
Mai qui.
Io non parlo quasi mai del mercato editoriale, se non per scherzarci sopra. C'è chi è convinto che sia un disastro e si debba fare qualcosa. Chi è convinto che sia un disastro e non ci sia più niente da fare. Più o meno tutti ritengono di sapere perfettamente "di chi è la colpa" (che varia dal pubblico beota agli editori incapaci, dalla crisi economica al governo, dalla cultura a internet, dalle stelle avverse ai Rettiliani).
Io di certezze ne ho poche, e me le tengo belle strette.
Una è che vengono spese ogni giorno energie immani in sforzi che alla fine non portano a niente: sforzi per scrivere libri che non verranno mai pubblicati (non avete la minima idea di quanti, credetemi), sforzi per promuovere libri che non venderanno mai, sforzi per comprare a decine o centinaia di migliaia di euro i diritti per libri che poi non rendono un centesimo della spesa, sforzi per diffondere libri belli, sforzi per diffondere libri brutti, sforzi per qualunque cosa.
Un'altra certezza è che ogni libro che scrivi e pubblichi può sempre essere l'ultimo. Non importa chi ti pubblica, non importa se hai già lettori, non importa se i tuoi libri precedenti sono andati bene o male: il prossimo che scrivi potrebbe semplicemente non interessare a nessun editore, per mille motivi non sempre razionalmente comprensibili. E oltre a quella linea non si va, punto.
Ma la certezza più importante, l'unica che per mia scelta determina il corso della mia vita, è che in questo complicato, dispendiosissimo gioco d'azzardo io so qual è il mio posto.
Il posto di chi smette di giocare.
Di chi ha smesso ieri.
E ora ha una gran voglia di farsi una passeggiata sul lungolago, che fuori c'è il sole.
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