martedì 30 dicembre 2014

La Sindrome di Pdor figlio di Kmer

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 29.12.2014


In principio era il verbo.
Ed era un verbo in Quenya, lungo almeno dodici sillabe.
Penso sappiamo tutti che la glossopoiesi nel fantastico si praticava già prima di Tolkien ma è stato lui a darle il boost definitivo, nonché – credo – è stato sempre lui a creare i primi linguaggi completi di vocabolario e grammatica, dove gli autori precedenti si erano limitati a parole o frasi. Da allora il fenomeno si è diffuso a dismisura e (a mio modesto e chiaramente contestabile parere) è sfuggito quasi subito al controllo.
Personalmente non ho mai avuto un rapporto facile con la cosa, anche se mi hanno sempre detto che è una caratteristica fondamentale del fantasy da mezzo secolo a questa parte. Ok, nella mia avversione c'è senz'altro una buona dose di gusto personale: nove volte su dieci preferirò un nome – pure cretino – in lingua corrente a una sequenza di suoni incomprensibili. Datemi del tamarro se volete, ma sono più disposto a tollerare un Oceano Sognante delle Grandi Onde Argentate che un Mare di Koyt'her'an a Sud dell'Ehsteweren di Arkhn'aor.
Ma per me il vero problema non sono gli apostrofi: il vero problema è il senso dell'operazione.
Ogni volta che, parlando con un collega scrittore che aveva usato parole fantasy di sua invenzione, ho accennato a sollevare la questione il suddetto collega ha difeso con veemenza la propria scelta, adducendo quasi sempre la stessa motivazione: anche in mancanza di un'utilità pratica, le parole fantasy contribuivano all'ambientazione del suo libro.
Ora.
Nell'ultimo romanzo che ho letto, The Goblin Emperor di Katherine Addison (uno degli unici due fantasy ambientati in un secondary world che abbia avuto voglia di leggere quest'anno) di parole e nomi inventati ce n'è un'infinità, e quasi nessuno ha meno di quattro sillabe. Hanno pure gli apostrofi. E la cosa mi è piaciuta moltissimo.
Il romanzo parla di un principe diciottenne cresciuto in esilio che, dopo un incidente che gli stermina la famiglia al completo, si ritrova di punto in bianco imperatore di un regno enorme, proiettato a calci in culo nel cuore di una corte dai rituali complicatissimi di cui lui non sa quasi nulla. Invece di usare parole come "duca" o "ministro" o anche solo "sir", l'autrice dà ai personaggi una serie di titoli intricati, fatti di particelle ricorrenti di cui non spiega mai il significato, ma che pian piano il lettore comincia a essere in grado di decifrare da solo. E il "gioco" si estende anche ai nomi di luoghi, azioni e altro ancora.
Ecco, questo è un esempio di glossopoiesi che funziona. Perché non è lì a fare ambientazione: è lì a fare struttura.
I nomi lunghi, farraginosi, difficili da pronunciare sono di fatto una proiezione esterna dell'angoscia, della confusione e del senso di straniamento del protagonista stesso (quello che le prof di Lettere dei licei chiamano dottamente "correlato oggettivo"). E il processo per il quale il lettore comincia a capire il senso delle parole esotiche mentre il protagonista (che ovviamente le parole le conosce già) comincia a capire il senso della sua posizione nel mondo è lì a svolgere la medesima funzione.
Io un'architettura del genere non saprei nemmeno da dove iniziare a progettarla. E anche per questo la ammiro così tanto.
Capite cosa voglio dire? Non ambientazione: struttura.
La stessa differenza che c'è tra il colore di un cibo e il suo sapore.

venerdì 28 novembre 2014

Parliamo di magia contemporanea con un ottagono e una mela d'oro

Conferenza dal titolo Un ottagono e una mela d'oro: lo stregone del Ventunesimo secolo tra sciamanesimo urbano e Magia del Caos, che ho tenuto domenica 19 ottobre 2014 durante la terza edizione di VaporosaMente, la divertentissima fiera steampunk di Torino. In un'ora e dieci di chiacchiere quasi ininterrotte (se nessuno mi ferma è così che va a finire!...) tento di fare il punto sulla stregoneria postmoderna.


martedì 18 novembre 2014

Intuizione

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 18.11.2014

Periodo di riflessioni e valutazioni nella mia scatola cranica. E' passato da poco Halloween, quindi per me questi sono i primi giorni dell'anno nuovo: si vagliano tante cose del presente e del passato e si ragiona su cosa farne. Ora, per una serie di curiose coincidenze, la prima riflessione che sono riuscito a portare a termine è del tipo che può servire condividere qui.
Punto di partenza: io detesto e ho sempre detestato dare pareri sui libri altrui. Più di tutto nel campo del fantastico.
In passato ho fatto per anni valutazione manoscritti per le case editrici (ora ho smesso), ma quello è un settore diverso: lì si tratta di piazzare un voto su caratteristiche relativamente facili da stimare come originalità, vendibilità o pura e semplice conoscenza della lingua italiana da parte dell'autore. Insomma, non il genere di cose su cui ti chiedono un parere "perché sei uno scrittore".
Ma di questi ultimi pareri, se sei visto come uno scrittore (non è implicitamente necessario che tu lo sia davvero), te ne vengono chiesti, e non pochi. Da amici e conoscenti come da quasi sconosciuti, da colleghi già pluripubblicati come da autori di manoscritti del cassetto.
E non vogliono pareri da "semplice lettore" (qualunque cosa questo significhi): vogliono giudizi tecnici, obiettivi, puntuali, razionalmente inconfutabili. Quei pareri, positivi o negativi, da cui impari il mestiere e che ti aiutano a migliorare come scrittore. Quei pareri che solo l'occhio attento di un esperto professionista della parola scritta può dare.
Io quell'occhio non ce l'ho.
Non me ne vanto e non me ne rammarico: è un semplice dato di fatto. Non mi sono mai fregiato del titolo di esperto di scrittura e lo respingo se qualcuno tenta di forzarmelo addosso (c'è pure gente che si è incazzata per questa mia reazione: prendetela come preferite, se la dovete prendere in qualche modo). Per questo ho passato anni a tergiversare o a cercare soluzioni di compromesso quando mi sono trovato in questa situazione, ossia più spesso di quanto avrei voluto.
Adesso tenterò una via diversa.
Non venite a cercare da me pareri tecnico-scrittori su alcunché. Cercateli nei blog di scrittura, nei manuali appositi, nei corsi che insegnano le tecniche più avanzate e sofisticate che si siamo viste sulla faccia del pianeta. Cercateli dove volete, ma non chiedeteli a me: non sto facendo il prezioso, è solo che non ho la competenza per darveli.
A me, in tutta onestà, potete chiedere solo due cose: o un parere che si basi sui miei gusti personali di lettore (che ovviamente valgono quanto quelli di chiunque altro) oppure, se non sono i miei gusti a interessarvi, posso darvi un parere basato sulla mia intuizione artistica.
Se vi sembra presuntuoso da parte mia, siete liberi di pensarlo. Nessuno è costretto a riconoscermi il possesso di tale intuizione, o la qualifica di "artista", o entrambe le cose. Queste cose potrebbero anche non esistered del tutto. Per me restiamo amici come prima.
Per parte mia, io la mia intuizione artistica la uso spesso, e so per esperienza quali sono i suoi punti di forza e quali i suoi limiti. Non è misurabile, non è razionalizzabile e non si basa su alcun parametro che possa essere automaticamente condiviso da tutti, quindi non la posso "vendere" come si può fare con una valutazione tecnica, né ho mai avuto la minima intenzione di farlo.
Ma se vi rivolgete a me, e se ho tempo e modo di fare qualcosa per voi, la mia intuizione artistica è l'unica cosa che io vi posso offrire.
Sul serio.

martedì 4 novembre 2014

Più nero della notte: vogliatevi bene e accattatevi questo libro

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 04.11.2014

Uscito finalmente dal coma post-Lucca – una sola notte di sonno non basta... – posso parlare di una cosa di cui aspettavo di poter parlare da mesi: da qualche giorno trovate in libreria Più Nero della Notte (Asengard), edizione italiana di Something More Than Night di Ian Tregillis.
Sì, l'ho tradotto io.
No, la casa editrice non mi paga per fargli pubblicità. Nemmeno con un caffè.
Sapete com'è, per una traduzione ti pagano prima che il libro esca, e che venda o no.
A questo libro faccio pubblicità perché è un bel libro.
Un libro bizzarro, inaspettato, spiazzante, di quelli che in Italia – vista l'aria che tira – arrivano sempre più di rado. Di cosa tratta lo potete leggere on line. Che cos'è non è una domanda altrettanto facile a cui rispondere.
E' un urban fantasy, che parla di angeli fatti in parte di teologia e in parte di meccanica quantistica, che possono viaggiare nel tempo e nello spazio attraverso i ricordi umani e che usano le acquasantiere come posaceneri.
E' un romanzo di fantascienza perché racconta di una Terra del futuro, un futuro non lontano in cui una guerra ha riempito i cieli di detriti infuocati e disintegrato l’ecologia planetaria, ma il cui vero motivo non è mai stato pronunciato da alcuna bocca sulla faccia della Terra.
E' la storia di un angelo caduto (che non si innamora, tranquilli), che cadendo ha fatto la sua fortuna, e di una donna mortale che invece ascende al Cielo e scopre che non esiste sfiga peggiore nell'universo.
E' un noir che più classico non si può, se non fosse che gli sbirri hanno braccia velenose e occhi al mercurio, i localini lerci si trovano ai confini del Paradiso e le pupe se ne vanno in giro con quattro facce maneggiando spadoni fiammeggianti capaci di tagliare in due una molecola.
E' una meta-storia che ci mostra una mitologia moderna da una prospettiva completamente nuova, e la trasforma in un paradigma universale.
Ed è un libro che farà (adorabilmente) incazzare gli adepti dei manuali di scrittura, perché se ne fotte dello show don't tell, delle sovrabbondanze, nelle ripetizioni, e annega ogni possibile protesta in un oceano di concettualismo barocco più denso di una colata lavica di crème caramel.
Non vi posso garantire che vi piacerà, nemmeno lontanamente. Ma vi posso garantire che non vi sembrerà uguale a nient’altro che avete letto.

martedì 28 ottobre 2014

Ho guardato il pilot di Constantine

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 28.10.2014

Nei mesi passati ho visto – più o meno di sfuggita – le varie discussioni sul fatto che il personaggio nel telefilm non avrebbe fumato, i rant contro la fedeltà al modello, i dubbi dei fan, le mille ipotesi. Per mio conto (e da non lettore del fumetto, è onesto dirlo) l'unica cosa che mi veniva da domandarmi era: come accidenti faranno a proporre oggi un'icona urban fantasy (anche se all'epoca la chiamavano horror) degli anni Novanta? Come pensano di presentare un personaggio del genere al pubblico del 2014 dopo la Hamilton, dopo Harry Dresden, dopo Supernatural e non farlo sembrare una copia di qualcosa di già visto tante, troppe?
E il telefilm mi ha risposto con chiarezza disarmante: partendo esattamente da dove avevamo lasciato.
Il pilot non perde un solo fottuto secondo a spiegare quel che non serve spiegare. Niente tirate sugli angeli, sui demoni, sul Cielo e l'Inferno, sul mondo nascosto, sull'ignoranza degli esseri umani comuni: è dato tutto per scontato. Quasi si sente il rumore dei pensieri degli autori: il pubblico di un telefilm come questo lo sa come si comportano gli angeli postmoderni. Lo sa cosa fanno i maghi con addosso il trench. Lo sa come si tratta coi demoni.
I personaggi di una storia di questo tipo – che più classica non si potrebbe – ormai possono persino auto-citarsi, prendersi per il culo da soli per come si vestono, ironizzare sui sigilli magici copiati da internet.
Che il risultato finale sia buono o meno, questa presa di consapevolezza merita da sola una standing ovation.
Aggiungete un po' di ironia da UF all’americana piazzata (quasi) sempre al momento giusto e un attore protagonista insolitamente espressivo, e capirete perché, contro le mie stesse aspettative, il pilot di Constantine mi ha fatto alzare il pollice.

giovedì 2 ottobre 2014

Camminare in cerchio

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 01.10.2014

Spesso usato come sinonimo di "non andare da nessuna parte".
Ma può anche essere un atto rituale, o magico.
Da quando ho iniziato a scrivere ho sentito dire (e urlare, e sputare, e piagnucolare) di tutto sulla scrittura.
Ho sentito dire che le regole esistono per essere capite e seguite e che le regole esistono per essere capite e infrante. Che si dovrebbe leggere solo di pancia, e che si dovrebbe leggere solo di testa. Che solo con la corretta applicazione della tecnica un libro può venir bene, e che solo con la spinta di un afflato interiore un libro può venir bene. Che seguendo le regole chiunque può scrivere un libro decente, e che nessuno può scrivere un libro decente senza ispirazione. Che non si nasce scrittori ma si può diventarlo, e che scrittori si nasce e basta.
Ho sentito dire che il talento non esiste, esistono solo il duro impegno e la preparazione. E ho sentito dire che il duro impegno e la preparazione non servono a una ceppa senza talento.
Quest'eestate Andrea Atzori, una delle persone più intelligenti che troverete in circolazione, mi ha offerto una prospettiva diversa: quella secondo cui un grande libro può uscire solo da una grande persona.
Essendo questo per me un periodo di riflessione, ci sto riflettendo molto. E non riesco a smettere di farmi una domanda: e se alla fine si stesse camminando in cerchio?
Se dopo aver studiato sui libri e/o imparato con la pratica, dopo aver seguito le regole e dopo averle infrante, dopo aver analizzato, sezionato, ricostruito, accettato, rifiutato, riso, pianto e urlato, non si finisca per tornare a un'unica, semplicissima verità di base: che per scrivere un Grande Libro bisogna essere Grandi Persone?
Che sia la grandezza umana l'unica virtù che uno scrittore dovrebbe coltivare, persino (anche se non necessariamente) a scapito di altre doti come la preparazione tecnica e/o l'ispirazione?
Che sia questo (o che perlomeno c'entri con questo) quel concetto poco definibile che di solito si chiama "talento"?
Faccio pure un passetto più in là: e se anche solo per scrivere un Libro Decente fosse necessario, first and foremost, essere Persone Decenti?
Molte popolazioni antiche sostenevano che il linguaggio degli Dèi è la poesia. E forse nessuno è riuscito a esprimere il contetto meglio dei popoli celtici, che dalla poesia sono più o meno ossessionati (provate anche solo a leggere l'antico poema irlandese The Cauldron of Poesy). Una delle caratteristiche fondamentali del linguaggio poetico è che, pur possedendo tecniche e tradizioni, può essere prodotto solo in maniera "viscerale", e recepito profondamente allo stesso livello. O, per dirla in altro modo, la poesia ha la sua tecnica ma "funziona" davvero solo quando sia chi la scrive che chi la legge la "sente".
Ma, mi direte voi, tu ti occupi di narrativa, mica di poesia!
Un bel po' di tempo fa mi è capitato di esprimere un concetto affine a questo a una persona molto amante della scrittura tecnica, che ha avuto una reazione vagamente inferocita e ci ha tenuto a spiegarmi che con queste "idee vaghe e fumose" non si va da nessuna parte, e che le persone intelligenti non hanno tempo tempo per "queste cose".
All'epoca non ci ho pensato, ma oggi, con la prospettiva del tempo, non riesco a non domandarmi quanta di quella rabbia non fosse semplicemente figlia della paura.
La paura di dover camminare sul filo senza la rete di sicurezza di un sistema collaudato, infallibile e razionale, e infallibile perché razionale. Una semplice (ma non banale) paura dell'ignoto.
Se così fosse, mi sa che avrei poco da rimproverare a chi si arrabbia. Perché quella paura ce l’ho anch’io, e non poca.
Di domande continuo a farmene, e di risposte continuo a non trovarne, ma oggi ho almeno un'ipotesi: che il talento sia (o che perlomeno col talento c'entri) una reazione alla paura. Non quella di chi non ha paura del filo e del vuoto che c’è sotto, o finge di non averne: quella di chi sul filo ci cammina lo stesso.

mercoledì 27 agosto 2014

Quanto dura una storia

ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO SU FACEBOOK IL 27.08.2014

Pausa dai discorsi seri (che hanno rotto un po' la minchia).
Chiacchierando di libri coi colleghi, un argomento che spunta con strana regolarità è quello della durata interna delle storie. Premesso che sappiamo benissimo tutti che la lunghezza di un libro c'entra poco o nulla con il tempo vissuto dai personaggi – storie che coprono un arco di anni possono stare in un raccontino e la storia di una singola notte può riempire 700 pagine – mi è venuta la curiosità di contare il tempo interno delle mie storie. Tralasciando le mie pubblicazioni più vecchie, il risultato sarebbe questo:

- Le due lune copre esattamente un mese lunare (come il titolo lascia a intendere), più l’epilogo che ha luogo 4 giorni dopo.
- Nel Sentiero di legno e sangue non è facile calcolare il tempo nemmeno per me che l'ho scritto, ma credo di poter affermare che si tratta al massimo di una manciata di giorni (se qualcuno di voi lo ha letto di recente e/o se lo ricorda meglio di me potrà confermare o correggere).
- Quando il diavolo ti accarezza se ricordo bene dura 5 giorni (di nuovo vado a memoria, smentitemi se ho ricordato male).
- Godbreaker dura un anno preciso, in quanto inizia e finisce con una festa di Capodanno (nel libro non viene specificato quale anno ma, se siete curiosi, sarebbe il 2010).
- Due miei inediti – uno che spero vedrà la luce presto e uno che la vedrà prima o poi – durano rispettivamente 6 e 17 giorni.
- Il libro che sto per finire è il più stretto che ho scritto finora in termini di tempo interno: tutta la vicenda sta in circa 48 ore.

Guardando questi numeri mi rendo conto di non aver mai scritto storie che coprano archi narrativi lunghi. Il massimo è l'anno di Godbreaker, che oltretutto è un caso isolato: tutte le altre mie vicende si esauriscono immancabilmente in tempi calcolabili in giorni.
E non è un dato privo di senso. Anche se ci rifletto come lettore, devo constatare che in generale oggi tendo a preferire – con tutte le eccezioni del caso, beninteso – le storie con archi temporali ridotti, analoghi a quelli dei libri che scrivo. Viceversa, quando ero più giovane preferivo le vicende con una durata interna di mesi e mesi o di anni.
Non so se questo significhi qualcosa, né so se esistano statistiche di qualche tipo su questo argomento.
Voi cosa tendete a preferire nelle storie che leggete? E in quelle che scrivete?