martedì 29 dicembre 2015

“Prendi sto cristallo e non rompere col tuo Natale!”


E siamo arrivati agli ultimi giorni dell’anno, quando si può anche fare un po’ di bilancio. 
Il blog esiste da 18 settimane, e questo – se li ho contati giusti – è il quindicesimo post. Significa in media un post ogni 8 giorni: pensavo di andare peggio, ma forse posso fare meglio. 
Nel complesso il bilancio è abbastanza negativo: pochi ingressi, che aumentano un pochino giusto quando parlo di libri anziché di mitologia o di magia (a dimostrare quel che già sapevamo tutti, ossia che al pubblico la polemica interessa più di ogni altra cosa). 
Pace. Per ora ho deciso di continuare, e continuo. Non negherò di averci preso gusto. 

Per chiudere bene l’anno, voglio trasformare una nota amara in qualcosa di buono. 
Quest’anno ho visto calare, ancor più degli anni passati, la solita pioggia di persone che si affannano a spiegare come il 25 dicembre sia tutto meno che una festa istituita dal cristianesimo, con annesso florilegio di “buone feste pagane” che le tentano tutte, dagli auguri per il Soltizio in ritardo (sic) a quelli per i Saturnalia o la festa del Sol Invictus (che – guardiamoci in faccia – se oggi in Europa la festeggiano 100 persone è tanto), da quelli che resuscitano il compleanno del dio Mithra a quelli che, in mancanza di meglio, vanno a infilare nella data feste di dèi celebrati in tutt’altra stagione. 

Ora, i punti sono due, e due soltanto. 

1. Che il 25 dicembre e in generale tutto il periodo che lo circonda siano un momento di celebrazione antichissimo, di molto precedente a tutte le religioni monoteiste, è cosa ormai nota all’universo intero. Se ci tenete ancora a farmelo sapere, avete inventato la patata lessa. 

Anche Mithra vi augura buon Natale...
qualunque sia il suo compleanno
2. Comincio a convincermi che nella società italiana di oggi esistano basilarmente tre tipi di pagani (almeno nel rapporto con le celebrazioni tradizionali): 
- Il tipo “a coinvolgimento basso”: ha deciso che la Chiesa cattolica non gli piace e che il paganesimo moderno è più fico, ma per il resto la sua vita resta sempre la stessa, e l’idea di “ripensare” il Natale non gli passa nemmeno per la testa 
- Il tipo “a coinvolgimento incazzato”: deve fare il pagano ogni volta che può, e dissotterrare le radici precristiane di qualunque simbolo, festa, preghiera o rito per lui è una missione, il suo sacro dovere di mostrare al mondo quanto sia ladro e bugiardo il cristianesimo 
- Il tipo “a coinvolgimento rilassato”: sa perfettamente perché sta festeggiando il 25 dicembre, non gli importa granché di che nome si dia alla festa, trova molto bello che la festeggino anche gli altri (suoi correligionari o meno) e di conseguenza non rompe mai le palle a nessuno. 

Se volete potere chiamarli anche il tipo cazzaro, il tipo incazzato e il tipo scazzato. Probabilmente tutti conosciamo persone in tutte e tre le categorie, e altrettanto probabilmente sappiamo collocare noi stessi (non offenderò la vostra intelligenza specificando quale delle tre mi sembri la migliore). 
A questo punto mi voglio rivolgere a una vasta gamma di persone, che include tanto i cristiani che si affannano a dimostrare con ricerche storiche da oratorio che Gesù sarebbe nato veramente il 25 dicembre, quanto i pagani che regalano talismani di cristallo e feticci di piume chiedendo (giustamente) che si rispetti il loro dono ma si stizziscono se gli si dice “Buon Natale!” invece che “Felice Yule!”: amici miei, vi siete accorti che quel che vi accomuna è che in questo giorno del 25 dicembre state tutti FESTEGGIANDO? 
E pure festeggiando tutti le stesse identiche cose: la rinascita della luce, il ritorno della speranza, il senso fondamentale della comunità e della famiglia, l’arrivo in Terra di quella salvezza che gli esseri umani sembrano incapaci di trovare da soli. Se avvertite un bisogno disperato di etichettare tutto questo con il nome di un dio che abbia il solo copyright e possa far causa ai concorrenti, o di delineare (fuori dalla saggistica accademica) il profilo storico di un momento della vita che trascende sia la storia umana che l’individualità dei singoli uomini, allora lasciatevelo dire: avete una religiosità primitiva. 
E non nel senso del “buon selvaggio”: nel senso di rudimentale, grezza, non evoluta. 

Per me, la via d’uscita è semplicissima: fate gli auguri come volete, ringraziate di cuore di qualunque augurio vi venga fatto, salutate tutte le mille forme e aspetti del Divino che vi si presentano in questi giorni, e più di ogni altra cosa FESTEGGIATE. 
Perché siamo vivi. Perché possiamo ancora fare qualcosa. Perché non è finita. 
E perché la luce non viene in Terra in vacanza: ci viene per darci una mano. 

BUON NATALE <3

lunedì 21 dicembre 2015

Gli dèi viventi, puntata 4: Il Grande Dio Rosso dell'Occidente


Dato che stanotte sarà il Solstizio d’Inverno (sì, quest'anno è tra il 21 e il 22, dovete aspettare il prossimo anno bisestile perché si riallinei al 20-21) e tra pochi giorni è Natale, trovo appropriato spendere due parle (ma proprio due, perché l’argomento è sconfinato e la maggior parte delle cose le sapete già) su una delle divinità più amate e venerate nell’Occidente contemporaneo.
Per comprenedere la potenza e la portata del suo culto basta anche solo un elenco dei suoi attributi divini (potete anche non leggerli tutti, il discorso fila lo stesso):

- ha un abbigliamento fisso e specifico e colori sacri – il rosso, e secondariamente il bianco e il verde – che spesso anche i suoi fedeli indossano durante la sua festa 

- ha simboli universalmente riconoscibili, che durante il suo tempo sacro vengono esposti ovunque: il cappello a ponpon, la slitta, il sacco rigonfio 

- ha un tempo sacro ben preciso, che va dai primi di dicembre al giorno di Natale, e il suo culto non è mai officiato in altri momenti dell’anno 

- ha poteri divini, tra cui il volo, il dono dell’ubiquità, la conoscenza del cuore umano (sa chi si è comportato bene chi no) e la capacità di violare le leggi della fisica portando immense quantità di materia in uno spazio ridottissimo 

- è un giudice ultraterreno, con il compito – non dissimile da quello degli antichi dèi dell’Oltretomba – di distinguere chi ha fatto del bene da chi ha fatto del male e distribuire premi e castighi 


Fino a pochi anni fa il grande pubblico ignorava chi
o cosa fosse il Krampus: oggi ha invaso
anche la tv e il cinema
- ha un animale sacro, la renna, che per alcune persone è talmente associata a lui che la sola idea di mangiarla – persino in Finlandia, dove è un piatto nazionale – suscita vivo orrore (sul serio, l’ho visto coi miei occhi) 

- ha una serie di cibi sacri, che per essere tali devono contenere l’alimento più strettamente associato a lui: lo zucchero 

- ha un corteo di esseri soprannaturali che lo assitono: per alcune tradizioni sono figure gioiose identificate con elfi e gnomi, ma per altre sono veri e propri demoni tormentatori, i Krampus, incaricati di fare giustizia dei malvagi 

- in inverno la sua effige è uno degli oggetti più venduti nel mondo intero

- gli è consacrata una categoria di esseri umani, i bambini; il suo culto è officiato quasi esclusivamente dagli adulti, ma i suoi giovani fedeli spesso hanno in lui una fede adamantina

- è probabilmente il personaggio su cui sono stati fatti più film nella storia

- ha un’identità umana storicamente collocabile, san Nicola di Mira o di Bari, vissuto tra il III e il IV secolo d.C., che si è lasciato alla spalle quando ha cessato di essere un comune mortale per ascendere alla sfera del soprannaturale 

- ha un sacro luogo di pellegrinaggio, Rovaniemi in Finlandia (anche se il primato gli è lungamente conteso da altri siti come il Monte Gesunda in Svezia), con cui i fedeli che non vi si recano di persona comunicano per lettera 

- durante il suo tempo sacro gli viene eretto un altare domestico nella forma di un albero adornato a festa, e i suoi giovani fedeli si aspettato che nella “notte fuori dal tempo” lui passi di persona a visitarlo 

Il Re dell'Agrifoglio
- ci sono miti moderni che lo riguardano, da quelli profani che servono a spiegare la sua iconografia (il più famoso è quello che lo vorrebbe vestito di rosso dalla Coca Cola Company, ma è un falso) a quelli strettamente religiosi che lo collocano nel conflitto ciclico-cosmico tra il Re della Quercia e il Re dell'Agrifoglio

- è una divinità sincretica (sul sincretismo degli dèi moderni avevo scritto qualcosa qui), perché unisce elementi cristiani come il santo citato sopra con antichissime tradizioni pagane: basti ricordare, giusto per fare un esempio, che nel mito nordico tutte le sue funzioni erano coperte dal dio Odino, che girava per i villaggi con l'aspetto di un pover viandante, premiando con doni chi lo accoglieva e punendo chi lo matrattava

- ha il potere di ispirare sentimenti specifici – generosità, perdono, allegria – ed è dunque un potente simbolo della “parte più elevata” dell’essere umano, il modello a cui l’umanità (nei suoi momenti migliori) vorrebbe sapersi conformare 

- in alcuni luoghi le sue funzioni pratiche sono attribuite ad altre figure divine, come Gesù Bambino o Santa Lucia, ma in gran parte dell’Occidente rimane solo lui la vera incarnazione dello spirito del Natale 

...E la lista potrebbe proseguire a lungo. 
Al solito, questo mio discorso – come tanti altri che faccio su questo blog – potrebbe sembrare solo un gioco. E non ci sarebbe nulla di male se lo fosse. 
Ma ci sono anche livelli ulteriori. 
Nella sua accezione moderna, Babbo Natale non è altro che una delle mille forme assunte da una figura che l’essere umano conosce dagli albori della sua storia: il messaggero divino che porta luce e speranza nel cuore tenebroso dell’inverno, nel momento in cui la sopravvivenza di tutti era più a rischio. Con il suo giudizio “tra buoni e cattivi”, era la lama del destino che divideva i sopravvissuti dai morti. E, con il simbolo di abbondanza rappresentato dai suoi doni, era la promessa del ritorno del sole e del tempo in cui cibo e calore non sarebbero più stati solo un ricordo.

Ma, si chiederà parecchia gente, basta sul serio questo a fare di Babbo Natale un dio?

Non sono certo io da avere la risposta. La dialettica tra divino e simbolo è una cosa complessa, e in ultima analisi il discrimine è del tutto personale.
La nostra è un’epoca in cui la religiosità sembra regredire anziché evolvere, con da una parte fedeli che interpretano alla lettera i testi sacri perché non hanno i mezzi per decifrare nulla di scritto oltre il primo livello (“La razza umana viene da Adamo ed Eva, punto e basta: lo dice la Genesi!”) e dall’altra parte razionalisti che difendono le loro posizioni con argomenti che farebbero rivoltare Galileo nella tomba (“Dio non esiste perché i telescopi hanno dimostrato che non c’è nessun enorme uomo barbuto che vive dietro le nuvole”). 
Alla luce di tutto ciò, anche come comportarsi nei confronti di questo Odino moderno vestito di rosso è una scelta individuale. Ma non crediate che sia priva di conseguenze.

giovedì 17 dicembre 2015

Il rocchetto di madreperla e Mondo in fiamme


Parliamo ancora di libri.
Nell’ultimo periodo pare sia tornata di moda – se mai si fosse sopita negli ultimi 8-10 anni – la vecchia tiritera ignorante che il fantasy italiano fa schifo al cazzo e gli autori italiani sono una massa di poveri incapaci montati dal primo all’ultimo. 
Io al “dibattito” – le virgolette sono quanto mai d’obbligo, perché la questione il nobile nome di dibattito non se l’è mai meritato neanche da lontano – non ho mai partecipato né in pubblico né in privato, se non nell’unica forma che ritengo perfettamente sensata: consigliare in sincerità i libri e gli autori che più mi sono piaciuti, senza proporre analisi (che non mi competono) e senza sciogliermi in compiaciute stroncature (che non mi interessano). 
Chi mi segue, peraltro, sa benissimo che faccio esattamente la stessa cosa con gli autori stranieri. A casa mia non è né è mai stata una questione di nazionalismo, ma solo di bei romanzi. A costo di ripetere per la millesima volta un’ovvietà atroce, ci sono bei libri e brutti libri in tutte le lingue. E allo stesso modo ci sono autori italiani bravi e autori italiani scadenti, fantasy italiani bellissimi e fantasy italiani disastrosi. 
Oggi dunque spendo due parole su due libri italiani che ho letto nelle ultime settimane – per caso uno di fila all’altro – e che mi sono piaciuti alquanto: Il rocchetto di madreperla di Chiara Strazzulla (Einaudi) e Mondo in fiamme di Edoardo Stoppacciaro (La Corte). 
Gli autori li leggo entrambi per la prima volta, e sono tutti e due mie conoscenze (Chiara solo on line, Edoardo anche di persona per pochi preziosi minuti alla scorsa Lucca): se pensate – come va di gran moda pensare – che questo infici il mio giudizio sul loro lavoro, be’, a me non frega un beneamato. Sì, questi due mi sono simpatici anche come persone: ora lo sapete, valutate voi di conseguenza. 
I loro sono due libri quanto mai diversi, per genere di fantasy come per stile come per tematiche, e anche per questo è stato strano e bello leggerli di seguito. 

Il rocchetto di madreperla è un fantasy storico di ambientazione vittoriana, che si muove tra Londra e Venezia per raccontare la storia di uno sfrontato, sarcastico, intelligentissimo aristocratico inglese che sfida il Diavolo a una partita di bridge e gli vince il solo mezzo al mondo capace di salvare la vita del fratello malato di tisi. Se non fosse che, anni dopo, per il Diavolo la partita non è ancora chiusa. Un tema classico, sicuramente, ma per una volta trattato con sviluppi niente affatto facili da prevedere. 
È un romanzo intensamente atmosferico, dal ritmo solenne, che non va assolutamente letto di fretta. Ci sono libri che ti agguantano per il collo e ti trascinando di corsa con loro, e libri che ti aprono la porta come un compassato maggiordomo e ti accompagnano in una visita densa e completa dell’intera magione: Il rocchetto di madreperla appartiene al secondo gruppo, e il favore più grande che il lettore può farsi è lasciare che le sue pagine lo portino via con i loro tempi. Per conto mio, non credo di aver mai letto una rappresentazione così vivida, intensa e credibile della società vittoriana da parte di un autore non inglese: di sicuro, mai in un fantasy italiano. 
Ma la cosa che rimane in mente, che più esce dalle pagine sono i diavoli (che stavolta non chiamerò demoni, anche se è considerato un termine più fico, ma proprio diavoli, perché questo è il nome più appropriato per loro). 
I diavoli di Chiara Strazzulla non hanno né artigli né corna né lingue di fuoco, eppure sono mostri come se ne trovano pochi là fuori. Solidi e concreti quanto le persone che incontriamo nei nostri sogni (ovvero totalmente, se visti dalla giusta angolazione), capaci di far collassare il confine che separa il mondo del quotidiano dalla dimensione degli incubi e delle visioni, educati come eterni gentiluomini, pazienti come ragni, trasformisti come gli dèi trickster delle vecchi mitologie, e nello stesso tempo gonfi di un potere talmente enorme che il solo pronunciare ad alta voce il loro nome può provocare sconvolgimenti nella realtà. 
Talmente ben riusciti, insomma, che pur sapendo benissimo “da che parte stavano” io non sono riuscito a non tifare per loro. 

Dall’altra parte c’è invece Mondo in fiamme, un fantasy classico sull’aria delle atmosfere di Martin. E se dico – cosa che chiunque mi segue sa già – che a me Martin non piace per niente ma questo libro mi è piaciuto eccome, e ci aggiungo pure che di fantasy classici ormai da anni ne leggo pochissimi perché su quel fronte la noia tristemente ha vinto, credo di stare dando una buona misura del mio apprezzamento. 
Riassumere la storia in poche parole non è facile, ma vi dirò che ci sono due regni reduci da una guerra orrenda e già sull’orlo di un’altra, sovrani corrosi dal loro stesso potere, spiriti inquieti di un mondo che non esiste più, una compagnia mercenaria costretta a una missione che può finire davvero male e un tesoro maledetto che va disperdendosi pian piano per il mondo quando sarebbe tanto meglio che tornasse là dove era sempre rimasto sepolto. 
A prima vista Mondo in fiamme potrebbe sembrare un grimdark, ma non lo è. Non per me, almeno. Tutti quegli elementi che a me rendono il grimdark un sottogenere alquanto inappetibile – poca magia, truculenza adolescenziale, militarismo e politica in dosi industriali – qui non ci sono, o, quando ci sono, l’autore li impiega in maniera intelligente. La magia c’è, ma non è pirotecnica, eppure aleggia costantemente su tutta la storia, o meglio ancora ribolle al di sotto, preparandosi a traboccare nel momento peggiore. La violenza c’è, ma ha sempre un suo senso, a volte anche dolorosamente sociologico. Come c’è la politica, che tuttavia serve strettamente allo sviluppo della storia, e lo serve egregiamente. 
La stesura ogni tanto è un po’ ingenua – so che Edoardo non me ne vorrà se lo dico, è il suo primo libro – ma solo ogni tanto: per contro, ci sono alcuni passaggi davvero potenti. E comunque se tutte le opere prime fossero come questa vivremmo in un mondo strepitoso: i personaggi sono interessanti, ti fanno venir voglia di sapere cosa gli succederà poi, la storia procede spedita, e in più io sono rimasto colpito – non saprei nemmeno dire perché – dallo sfondo geografico della vicenda. Con i suoi boschi nebbiosi, i suoi laghi gelidi, le sue montagne nere, le sue città arroccate dalle stradine in salita Mondo in fiamme mi ha lasciato una serie di vivide, intense impressioni visive, un senso inquietante di natura primordiale ed estranea, che va ad aggiungersi ai meriti di una storia di cui leggerò senza dubbio il seguito (quello uscito per ora è solo il primo volume). Ripeto: se tuti i romanzi d’esordio fossero così, ci sarebbe da firmare col sangue.

Ecco: se siete in ritardo con qualche regalo di Natale, uno di questi due libri potrebbe servire egregiamente alla causa. Believe me.

mercoledì 9 dicembre 2015

THE SHAMAN: un corto che lascia a bocca aperta


Due giorni fa mi è capitato sotto gli occhi quello che è, senza ombra di dubbio, il corto più stupefacente che io abbia visto da anni a questa parte. Onestamente, è più bello di tanti film "veri".
Chiaro che l'argomento mi tocca particolarmente ed è possibile che questo abbia influenzato il mio giudizio, ma in tutta sincerità io lo considero solo un valore aggiunto. 

Non vi dico di cosa parla, perché la storia – come ogni buona storia – si spiega perfettamente da sé. Il mio consiglio è soltanto: GUARDATELO. 
In soli 17 minuti (in realtà poco più di 15, il resto sono i credits finali) vi racconterà una storia di violenza e spiritualità, di scelte e di conseguenze, di Spiriti ingannatori, di macchine devastatrici e di tecno-sciamani che hackerano la Realtà. La ricchezza di dettagli sia visivi che narrativi è mind-blowing: c'è persino un riferimento (intenzionale?) alle teorie sull'uso degli strumenti a corda al posto dei tamburi nell'antico sciamanesimo euroasiatico. Io per poco non ho applaudito da solo nella mia cameretta. 
L'unica possibile controindicazione per gli spettatori non anglofoni è che la sola versione che ho trovato ha i sottotitoli in varie lingue - inglese incluso, chiaramente - ma non italiano (li potete attivare cliccando sul tasto CC in basso a destra del filmato). Se qualcuno dovesse reperire una versione sottotitolata in italiano la segnali pure! 


Marco Kalantari

L'autore di questo piccolo capolavoro – che quest'anno è stato presentato anche al Tribeca Film Festival – è Marco Kalantari, un giovane regista austriaco di cui non avevo mai sentito parlare ma del quale ora cercherò senza dubbio gli altri film. 

Se a questo punto siete printi alla visione, cliccate sull'immagine in calce e... buon viaggio nel Mondo Inferiore *_*

(Un ringraziamento sentitissimo va a Filippo Tapparelli, che per primo me lo ha segnalato: thanks, bro!!)


https://vimeo.com/146865820

lunedì 23 novembre 2015

Cattivi perché sì

Notavo di recente che, da quando ho cominciato a scrivere post sereni per parlare di dèi e magia anziché tirate lamentose per parlare di libri ed editoria italiana, le visite ai miei spazi si sono ridotte a circa un quinto (cifre che non mi invento, i contatori stanno lì per quello).
È fuor di dubbio che questo la dice lunga sul pubblico inteso in senso generale, come peraltro è fuor di dubbio che io ai miei lettori voglio un gran bene comunque, che seguano o meno le mie chiacchiere on line. 
Potrebbe sembrare questo il motivo per cui oggi ho deciso di parlare di nuovo di libri – o meglio di storie – ma in realtà è solo perché la breve e oziosa riflessione che segue mi picchietta la testa da un po’. Poi è ovvio che andrò a guardare i contatori per vedere se sono saliti! (ma dopo continuerò imperterrito a parlare di magia). 

Una cosa che non ha mai smesso di farmi sorridere sono le lamentele contro i villain “cattivi perché sì”. 
Per farla breve, ce la si prende con quelle storie in cui gli antagonisti non sembrano avere – perlomeno nell’opinione del lettore di turno – una vera buona ragione per comportarsi da figli di padre incerto. A volte il capo d’imputazione è una mancanza di caratterizzazione psicologica (ma concorderete con me che, nei libri in cui accade questo, il problema non si limita quasi mai al solo personaggio del villain...). Altre volte il lettore semplicemente non riesce a capire perché una persona sensata dovrebbe comportarsi a quel modo. Altre volte ancora, nei casi in cui il villain non sia del tutto sano di mente, il nostro lettore può annunciare con un sorriso trionfale che con la follia l’autore ha solo trovato un banale escamotage per far fare quel che gli pare al suo cattivo. 
Ora, al netto del fatto – tremendamente ovvio, ma a puntualizzare l’ovvio su internet non si sbaglia mai – che esistono i personaggi (buoni o cattivi) mal caratterizzati, come esistono gli autori che non li sanno gestire, e nessuno sta tentando di giustificare né i primi né i secondi, per quanto mi riguarda io sono ASSOLUTAMENTE FAVOREVOLE al “cattivo perché sì”.

Parlando da lettore, di motivi me ne vengono in mente almeno tre. 
Il primo è che di gente “cattiva perché sì” è pieno il mondo. Conosco svariate persone che non hanno una sola buona ragione nella vita per avercerla con l’intera razza umana – e alcune le conosco abbastanza bene da sapere per certo che non hanno orribili segreti chiusi negli scantinati della loro infanzia – eppure sono individui profondamente incattiviti, pronti a infilare un po’ di malvagità gratuita in tutto quello che fanno. E non dubito che ne conosciate anche voi. Ci si sente tanto spesso rompere le palle con lo (stupido) adagio secondo cui le storie dovrebbero essere più verosimili della realtà, soprattutto le storie fantastiche: ecco, se vi guardate un po’ intorno scoprirete in fretta che il “cattivo perché sì” è una figura paurosamente realistica. 
Lui era cattivo perché sì. Non lo abbiamo adorato per questo??

Il secondo motivo è che i villain nei romanzi (e particolarmente nei romanzi di fantastico) sono figure di potere – se fossero delle nullità non sarebbero un ostacolo sulla via dell’eroe – e il potere non fa quasi mai bene a nessuno. Ancora una volta, basta guardarsi attorno: le persone che aquisendo potere – di qualunque genere – migliorano come esseri umani, o anche solo rimangono come erano prima, sono una stretta minoranza. Probabilmente strettissima. A un villain, nella vita reale come nelle storie, non servono oscuri traumi infantili o complicate ragioni personali per tirare fuori il peggio di sé: la semplice possibilità di farlo tante volte basta e avanza. Un grande stregone, un terribile signore della guerra o un tiranno intergalattico che si ritrovi col potere di cambiare le cose come gli va, di far fare alle persone quel che vuole e di non dover rendere conto a niente e a nessuno per tutto questo si comporterà da mostro inevitabilmente. Perché è così che siamo fatti, che ci piaccia o meno.
(Un discorso diverso si dovrebbe fare per i villain “da gerarchia”, che non hanno potere assoluto ma devono render conto ad altri sopra di loro: magari lo farò in un altro post, oggi parliamo solo di “grandi cattivi”).

Il terzo motivo – che probabilmente è il mio preferito – è che non sempre il lettore vuole empatizzare anche con il villain: a volte (e magari volete farmi credere che sia una cosa rara??...) vuole soltanto vederlo annientato. O meglio, vuole vederlo fare cose orribili e impensabili, vuole vederlo aggredire, vessare, torturare e stritolare gli eroi e poi vederlo spazzato via come si merita. Perché nel mondo reale questa forma di giustizia è tutt’altro che scontata, ma la nostra indole ne ha una gran sete. Perché in realtà non serve neppure che l’eroe sia “buono” perché lo si voglia veder vincere (e di fatto l’eroe “buono e basta” è passato di moda da una sacco di tempo), ma serve assolutamente che il cattivo sia cattivo per farci desiderare di vederlo con la faccia nella polvere. 
È una delle massime forme di soddisfazione vicaria che una storia possa offrire. Dobbiamo odiare il villain, vogliamo odiare il villain, e nulla suscita maggiore odio della malvagità gratuita. Perchè riconosciamo per istinto che è una cosa reale, contro la quale nella nostra vita di tutti i giorni siamo per gran parte impotenti. 
Quella parte di noi che vuol vedere il cattivo che alla fine muore urlando è la stessa che, in altre circostanze, vuole farci empatizzare con lui (qui sto parlando più che altro del villain psicologicamente approfondito). In quei casi, anche noi vorremmo il suo potere, vorremmo la sua impunità, vorremmo il senso di apparente giustificazione che deriva dall’aver subito i suoi traumi. Evil is cool se il cattivo siamo noi.
Se il cattivo sono gli altri, be’, allora li vogliamo davvero cattivi, cattivi senza giustificazioni, perché il loro lavoro in una storia è sorgere come un sole nero, devastare la Terra e infine cadere nella rovina, offrendoci così quello scampolo di giustizia che la vita troppo spesso ci nega. 
E non è né giusto né sbagliato. È semplicemente umano.

lunedì 9 novembre 2015

Facciamo un bel respiro...

Da persona che ha praticato un po’ di Pranayama – che sarebbe lo yoga del respiro – e che di base respira da schifo, vi dirò che l’argomento del respiro nelle scienze occulte mi interessa non poco, ma in parecchie fonti è trattato in maniera insulsa, in toni che stanno a metà tra un corso di yoga per casalinghe e il volantino pubblicitario di un centro benessere (chiaro che sto generalizzando, non è sempre così). 
Dunque, per iniziare bene la settimana mi è venuta voglia di illustrarvi tre giochetti semplicissimi da fare col respiro, che potete provare pure senza alzarvi dalla seggiola del pc o al massimo andando a stendervi sul divano, e che – mi auguro – vi divertiranno anche se non siete riprovevoli figuri che pasticciano con la magia. 
Ovviamente non li ho inventati io, anzi sono tutto meno che segreti esoterici (li conoscono bene gli atleti come gli attori, ad esempio) ma non sempre li si trova spiegati in maniera user-friendly. Tenete conto anche che non funzionano allo stesso modo su tutti, perché ognuno di noi ha reazioni diverse a esperienze come l’iperossigenazione, quindi non ve la prendete con me se all’inizio gli effetti non dovessero essere eclatanti. Anche qui, come in quasi tutte le cose, la pratica fa l’uomo maestro. 
Pronti? 
Partiamo! 

1: Droghiamoci d’aria 
Questa pratica gli yogi la chiamano “respiro di fuoco” e la conosce più o meno chiunque abbia fatto Pranayama, ma ora vi spiego una versione semplificata che serve a uno scopo ben preciso.

Non era quello che intendevo con respiro di fuoco,
ma ci siamo capiti...
Stendetevi, rilassatevi e fate qualche lungo respiro tranquillo. Quando non vi sentite più tesi, inspirate ed espirate velocemente a bocca aperta (sì, proprio quello che i salutisti della respirazione dicono sempre di non fare!) contanto fino a 20. Ogni inspirazione e ogni espirazione conta come 1, quindi in totate farete 10 respiri completi. Arrivati a 20 ricominciate a respirare dal naso, in maniera tranquilla e ritmica, di nuovo contando fino a 20. Poi ripetete la sequenza veloce con la bocca, anche più volece di prima se vi va, e poi di nuovo lentamente dal naso. Potete ripetere per quante volte volete, ma è meglio non esagerare e ve ne accorgerete subito da soli. 
L’aspetto divertente di questo esercizio è che ha lo stesso effetto degli oppiacei, ovvero attiva nel cervello quei neurotrasmettitori che nei neonati vengono stimolati dal poppare il latte materno. In parole povere, vi manda in botta e vi fa tornare mentalmente – per qualche secondo – a quando avevate due mesi di vita. 
Non mi credete? Provateci! 

2: Energia a palla 
Il secondo esercizio è un filo più complicato del primo ed è tipico dei maghi postmoderni. Serve per accumulare energia, ma è utile anche solo per sentirsi bene. 
Può essere anche meno epico di così, ma rende l'idea
Restate seduti o alzatevi in piedi (non conosco nessuno che lo faccia da sdraiato, ma immagino sia possibile...), chiudete gli occhi e inspirate. Immaginate che la vostra energia sia una sfera luminosa al centro del petto: quando ispirate, la sfera si allarga attorno a voi, quando espirate si contrate fino a diventare una piccola palla sovraposta al vostro cuore. Fate lunghi respiri calmi ma profondi, sempre più profondi, e a ogni respiro allargate sempre di più la sfera: deve arrivare almeno al diametro delle vostre braccia aperte, ma se ve la sentite potete farla anche più grande. 
Procedete con calma e immaginatela bene, vedetela che si espande non solo davanti a voi ma anche dietro, sopra e sotto. È probabile che dopo un po’ comincerete a visualizzarla di un colore ben preciso, che facilmente resterà lo stesso anche se rifarete l’esercizio in futuro: è un bene, significa che cominciate ad avere una percezione della vostra propria energia. 
Quando arriverete alla massima capienza dei vostri polmoni, anche la sfera avrà raggiunto la sua dimensione massima, e quasi di certo vi sentirete carichi di forza. Potrebbe venirvi voglia di correre o saltellare. A quel punto i maghi prendono l’energia accumulata e la canalizzano da qualche parte, ma voi potete anche solo esalare un ultimo lungo respiro, riaprire gli occhi e tornare alle vostre faccende quotidiane con una riserva di energia che prima non avevate. 
Se ci provate davanti a una fonte di luce naturale, come il sole o la luna o un falò, o anche solo il riflesso del cielo sull’acqua, noterete che l’effetto è anche più intenso, a volte davvero esaltante. 

3: Respirazione VM18 
Terzo e ultimo esercizio, tristemente riservato solo alle lettrici, in quanto non mi risulta che funzioni sugli uomini (o meglio, immagino che un vero yogi lo saprebbe far funzionare, ma abbiate pietà di me che sono solo un povero stregone da marciapiede...) 
Viene dal Tantra ma in Occidente lo chiamano prosaicamente orgasmic breath, e avrete già capito a cosa serve: a provocare un orgasmo con la pura e semplice respirazione. Sul serio, con le mani in tasca e i vestiti addosso. Ovviamente, essendo uomo, di persona non l’ho mai provato, ma conosco donne su cui funziona. Alcune ci riescono anche istintivamente, senza nemmeno conoscere la tecnica, che in sé è piuttosto semplice. 
Avete presente??
Dovete stendervi e rilassarvi come al solito (o anche restere sedute, c’è chi preferisce così) e cominciare a prendere lunghi respiri, profondi e tranquilli, immaginando che l’aria scenda come un fiume giù lungo la vostra colonna vertebrale fino nei genitali e da lì risalga a flusso verso il naso. È importantissimo non avere fretta: se siete di corsa, rimandate l’esperimento a momenti più tranquilli. Dopo alcuni respiri dovreste accorgervi che c’è almeno un punto del vostro corpo in cui l’immaginario passaggio dell’aria vi dà una sensazione più gradevole che altrove: in genere è nei genitali, ma potrebbe anche essere da un’altra parte. Una volta individuato quel punto, concentrate lì il passaggio dell’aria e accelerate il ritmo, in sequenza crescente: se vi sentite come Meg Ryan in quella scena di Harry ti presento Sally, ecco, lo state facendo bene. 
Da questo punto in avanti non credo serva spiegare altro...