lunedì 24 ottobre 2016

Una Parola per domarli, una Parola per trovarli...


Ed ecco che dopo due mesi di silenzio (non annunciati, lo so…) la Capanna riapre i battenti. 
Sì, è da agosto che non aggiorno il blog, principalmente per due motivi: il primo è, tanto per cambiare, il tempo libero, che ultimamente ha scarseggiato alquanto (quest’autunno le mie attività extracurricolari – sport, corsi e quant’altro – sono raddoppiate di numero). Il secondo è un po’ più difficile da spiegare. 
Di recente mi è capitato sempre più spesso di tirar fuori, parlando con amici e conoscenti, il mio sospetto di vecchia data che la stragrande maggior parte della comunicazione umana sia finalizzata al solo e unico scopo di manipolarci a vicenda. 
Sulla questione sono già stati versati oceani di inchiostro, che in questa sede non mi interessano. Il mio punto di partenza è molto più banale: un bel po’ di anni fa, ormai, ho letto un libro (che trovate anche nella bibliografia del blog) intitolato Stoned Free: How to Get High Without Drugs, ovvero un manuale – spassosissimo anche al di là dell’uso pratico – sui mille modi per raggiungere stati di coscienza alterata senza assumere sostanze chimiche. 
Tra i suggerimenti del libro ce n’era uno che mi aveva colpito in modo particolare: stare zitti. Decidere volontariamente di non parlare per giorni o anche settimane (se possibile in termini pratici), come un antico monaco votato al silenzio.

Cito direttamente dal libro, pag. 151, in traduzione mia: 
“Anche dopo un giorno soltanto, potreste sentirvi invasi da un senso di estrema soddisfazione. Persa la capacità di manipolare gli altri, perderete anche il bisogno di controllare le cose attorno a voi. […] Potreste sorprendervi a sorridere senza alcuna particolare ragione.”
Queste poche righe mi sono rimaste piantate nel cervello per anni. Finora non ho mai tentato l’esperimento (anche se due anni fa ho vissuto per un breve periodo come ospite in un’abbazia benedettina, dove credo di aver passato almeno un paio di giorni di seguito senza dire una parola), ma sono certo che prima o poi lo farò. Cionondimeno, l’idea della comunicazione come tentativo costante di manipolazione non mi ha più mollato. A volte mi sforzo di farci caso (sempre più spesso, ultimamente), di osservare me stesso mentre parlo e domandarmi perché lo sto facendo: quante volte in un giorno apro bocca per comunicare semplicemente un concetto, e quante invece per tentare di indurre il mio interlocutore a dire, fare, pensare qualcosa da cui io possa trarre un qualche vantaggio?
È un esercizio spiazzante, e qualche volta vorrei non averci mai pensato. 
Scrivere, in quanto forma di comunicazione, rientra nella stessa problematica, che sia scrivere un romanzo o buttar giù un post per Facebook o per un blog. Al di là dell’umano desiderio – legittimo o meno – di fare sentire la propria voce al mondo, che cosa intendo realmente fare quando scrivo “in pubblico”? 
Nel campo io sono – nel bene e nel male – un autodidatta, non ho imparato a scrivere sui manuali o in corsi di scrittura, ma sono consapevole che tutto quel che si insegna in qualunque curriculum finalizzato allo stendere narrativa si riassume in qualcosa di ben preciso: i mezzi pratici migliori (si suppone e si spera) per indurre il lettore a pensare, immaginare, provare emotivamente quel che vuole lo scrittore. Tutte le nozioni sull’argomento, dai suggerimenti più banali tipo “rispettate il punto di vista dei personaggi” ai semi-deliranti discorsi sugli esperimenti che dovrebbero provare la maggiore efficacia neurologica di alcuni stili di scrittura rispetto ad altri, non fanno che puntare a quest’unico scopo. 

Chi si ricorda di Svengali?
Certo, mi direte, scrivere narrativa è tutto un altro paio di maniche rispetto al tentare di “manipolare a chiacchiere” la gente per ottenere qualcosa di concreto. E la mia risposta è: “Solo fino a un certo punto”.
Chiunque scriva lo fa per una o più ragioni, che a seconda della singola persona possono essere sincere verso se stesse o meno, come pure “ammirevoli” o “deplorevoli” se giudicate secondo una griglia morale a vostra scelta. Personalmente, quando mi chiedo da solo “Perché stai scrivendo questa storia?” (o questo articolo, o questo post), in genere mi rispondo “Perché mi sembra che valga la pena raccontarla”. Ma che cosa c’è davvero dietro? La voglia di sentirmi dire “Ma quanto sei bravo”? Il tentativo di convincere qualcuno che ho ragione io, che la mia visione del mondo è quella corretta e le altre sono da buttare? Il semplice gusto di sfoggiare le mie conoscenze, perché i miei lettori possano esclamare “Accidenti quante cose sa Luca Tarenzi!…”? 
Domande cretine, forse. O domande inutili. Resta il fatto che io non riesco a liberarmene con un’alzata di spalle, soprattutto perché mi rendo conto che si trascinano dietro un’ultima domanda ancora più importante (almeno per me): al di là di qualunque ipotetica valutazione morale, in un mondo già così insopportabilmente saccente e pseudo-furbo io voglio essere la persona che mette in atto tutte queste manipolazioni? È questa l’idea che voglio avere di me stesso, davanti allo specchio che mi aspetta in bagno al mattino ancor prima che davanti a chi mi circonda? 

Una risposta per il momento non ce l’ho. Di scrivere non ho smesso: sto finendo la prima stesura di Poison Fairies III proprio in questi giorni, ho altri progetti per l’immediato futuro e, come vedete, sono tornato anche qui sul blog, sebbene i miei dubbi mi abbiano azzittito per due mesi.
Ma certe domande non se ne vanno a dormire insieme a te la sera, e possono paralizzarti non meno di un kanashibari...