lunedì 25 luglio 2016

Un demone negli occhi

Ultimamente ho rotto troppo le palle con post dai toni vagamente polemici. Quindi ho deciso di tornare ai discorsi sugli dèi e la magia, che a quanto pare sono più socialmente innocui di quelli sulla scrittura (significativo, vero?)

Or dunque, avete mai provato a restare immobili e fissare negli occhi per lungo tempo (non per una manciata di secondi, parlo di minuti interi) il vostro viso nello specchio, o il viso di un’altra persona?
Se per caso lo avete fatto, è piuttosto probabile che abbiate cominciato a vedere cose strane. Soprattutto se eravate in penombra, con una fonte di luce indiretta fuori dal vostro campo visivo.
Un paio d’anni fa uno psicologo dell’Università di Urbino, Giovani Caputo, ha fatto alcuni esperimenti sull'argomento nell’ambito della sua ricerca accademica. Se digitate il suo nome on line troverete vari articoli sia in italiano che in inglese (ce ne sono qui, qui e qui, giusto per citarne alcuni), ma al solito vi farò io un riassunto veloce. 
L’esperimento del 2014 sostanzialmente consisteva nel mettere alcuni volontari a coppie uno di fronte all’altro in una stanza poco illuminata, lasciarli a fissarsi negli occhi per una decina di minuti e poi far compilare loro un rapporto su quello che avevano visto (come campione di raffronto, nella stanza di fianco un altro gruppo di volontari è stato messo a fissare una parete bianca). Il risultato è stato che oltre il 70% dei volontari, dopo anche meno di dieci minuti, ha cominciato a sperimentare stati di alterazione della coscienza: apparente acutizzazione dei sensi (colori che sembravano più vividi, suoni che sembravano più forti), distorsioni nella percezione del tempo, ma soprattutto allucinazioni visive. I volti fissati si deformavano, diventavano simili a musi animali o maschere mostruose o generiche figure umane archetipiche (vecchi, bambini). In qualche caso assumevano la fisionomia di persone note all’osservatore (genitori, figli, partner), sia vive che defunte. 
Sono chiaramente risultati interessanti e l’accademia ci sta ancora lavorando oggi (nel senso che gli esperimenti in materia proseguono). Caputo stesso ha ipotizzato che le allucinazioni possano essere una conseguenza del “ritorno alla realtà” dei soggetti dopo che il prolungato periodo di mancata stimolazione sensoriale ha indotto loro uno stato dissociativo. Un’ipotesi alternativa chiama in causa il fenomeno ottico del Troxler’s Fading (“Dissolvenza Troxler”), ossia quell’effetto ben noto per cui, se si fissa a lungo un punto fermo, le immagini intorno cominciano a sbiadire e alla fine svaniscono. L’ipotesi sarebbe che il cervello, in mancanza di dati forniti dai sensi, “riempie i vuoti” con materiale tutto suo proveniente da ricordi, aspettative ed esperienze pregresse (che poi è quello che succede normalmente negli esperimenti di deprivazione sensoriale). 
L’anno seguente sono stati fatti esperimenti simili con volontari messi davanti a uno specchio, e i risultati sono stati più o meno gli stessi: se lo fissiamo abbastanza a lungo, anche il nostro stesso volto muta e assume forme bizzarre. Cosa che, come dicevo all’inizio, molti di noi avranno già notato anche fuori da un laboratorio*. 

Io non sono uno psicologo e non ho titoli per prendere alcuna posizione in merito: riporto semplicemente cose che ho letto. A me tutto questo interessa perché la pratica del “fissare qualcuno o fissarsi da soli negli occhi finché il volto cambia” è ben presente in tante tradizioni magiche, anche molto antiche. 
La persona da cui ho imparato le mie primissime nozioni di sciamanesimo, un bel po’ di anni fa, mi raccontava che in Sudamerica è abitudine degli sciamani, quando fanno conoscenza di una persona nuova, fissarla “nell’occhio sinistro con il proprio occhio destro”. Questo perché nell’occhio sinistro starebbe nascosto il lato represso della personalità di ciascuno, quello che noi stessi in genere cerchiamo di non vedere né mostrare, che tuttavia lo sguardo di uno sciamano dovrebbe essere in grado di cogliere proprio grazie al “mutamento del viso” di una persona, se osservata abbastanza a lungo. Gli stessi sciamani sudamericani fanno esperimenti di questo tipo anche su se stessi, guardandosi allo specchio alla luce del fuoco, per conoscere e imparare a gestire i propri lati oscuri.
Venendo più vicino a noi, in forme di magia postmoderne come la Chaos Magic il “mutamento del viso” è praticato quasi esclusivamente allo specchio, per ottenere vari risultati. Il punto fondamentale, però, coincide proprio con quello supposto da alcuni degli sperimentatori di cui sopra: quel che si sta facendo è tirare fuori a forza da qualche punto profondo della psiche “cose” che normalmente stanno sepolte laggiù, lontano dalla nostra normale autocoscienza. E se a istinto non vi suona come una buona idea, be’, non siete i soli a pensarla così. 
Ma d’altro canto si sa che tra i praticanti di magia postmoderna il buon senso è una merce abbastanza rara, anzi non sono poche le scuole di pensiero che incoraggiano i gesti rischiosi e la sperimentazione senza rete di sicurezza. Un esempio tipico è la tecnica di magia nera che suggerisce di prendere uno specchio, scriverci dietro il nome il qualcuno che vi ha fatto girare le palle assieme a una frase che spieghi concisamente quel che volete che gli accada, poi fissarvi nello specchio finché il vostro mostro personale non emerge e ordinargli di “evadere l’ordine” scritto dietro (in realtà è un po’ più complicato di così, sto semplificando per amor di brevità e magari perchè non possiate accusarmi di divulgare incantesimi poco carini e pucciosi**)
Se tutto ciò vi pare un po’ troppo simile a un’evocazione demoniaca, è perché non si tratta di nulla di diverso: la teoria è che state usando parti di scarto della vostra psiche per dare corpo a una forma-pensiero partorita con il preciso scopo di fare del male a qualcuno. La vostra vittima dovrà vedersela con il mostro, voi dovrete vedervela con la vostra coscienza. 

Esistono naturalmente impieghi meno discutibili del “mutamento del viso”. Ad esempio c’è chi lo usa come aiuto per liberarsi da aspetti di sé che non desidera più: un modo di pensare, una brutta abitudine, una dipendenza, un sentimento sgradevole associato a qualche ricordo. La tecnica inizia allo stesso modo: fissate al vostra immagine nello specchio pensando attentamente al mostro di cui volete sbarazzarvi, e quando lo vedete apparire dovete chiamarlo con il suo nome, avvolgere lo specchio in un panno opaco e chiuderlo con qualcosa di vincolante, come una catena o una corda annodata (sono consigliati tre o sette nodi, per l’ovvia simbologia numerica). Mentre chiudete il mostro nello specchio, ditegli ad alta voce che lo state intrappolando e che intendete liberarvi di lui: fate in modo che non rimangano dubbi né a lui né a voi su quel che sta succedendo. Poi andate difilato a gettare il fagotto in un tombino, o giù da un ponte, o su un camion della spazzatura diretto alla discarica, o in un corso d’acqua che scorra in direzione opposta a casa vostra. E, se siete di inclinazione religiosa, chiedete alle Forze appropriate di portarlo il più lontano possibile da voi. 
Badate che non è mai una soluzione definitiva: il mostro che avete sfrattato con la forza è comunque una parte di voi, e prima o poi ritroverà sempre la strada di casa. Ma di certo ci metterà un po’, e nel mentre voi avrete il tempo che vi serve per prepararvi al match finale. Lo scopo di questo incantesimo è fare in modo che qualunque tecnica psicologica, terapia o percorso decidiate di intraprendere per liberarvi definitivamente del vostro problema funzioni meglio, più in fretta e con meno fatica da parte vostra. 

In chiusura, lo so che arriverà sempre la solita domanda: ma sono vere tutte queste cose, o sono solo baggianate e illusioni? È magia o psicologia quella di cui stiamo parlando? E da quando in qua quel che vedo io nel mio specchio può fare qualcosa alla vita di qualcun altro? Luca, stai tentando di prenderci per il culo come tuo solito? 
Inevitabilmente, io darò la solita risposta: non spetta a me sciogliere questi dubbi. Non lo potrei fare nemmeno se volessi. Però posso darvi un consiglio: la risposta migliore tra tutte è sempre e soltanto la prova dei fatti. 




* trovo significativo il fatto che Caputo in un suo articolo (questo) noti come i soggetti meno propensi a vedere mutamenti nel proprio volto siano quelli gravemente depressi: il loro volto non cambia quasi mai, o al massimo assume ai loro occhi una fissità gelida che ricorda le statue mortuarie 

** la tecnica completa la troverete senza fatica nei testi sull’argomento: uno è The Paradigmal Pirate di Joshua Wetzel, citato anche nella bibliografia del blog

mercoledì 6 luglio 2016

Cari scrittori, vi voglio bene ma statemi lontano


Certe volte – non spesso, ma certe volte – sono stato accusato di schivare intenzionalmente la compagnia dei miei colleghi scrittori. Non di tutti, beninteso: è ovvio che tra gli scrittori ho dei cari amici e amiche, e a dirla tutta nemmeno pochi. Eppure l’accusa in un certo senso è fondata. 
Negli anni mi hanno dato dello snob, del radical chic della scrittura, del falso scrittore (sic) e di quello che “sputa nel piatto in cui mangia”. Non ho mai avuto (che io sappia) dei veri haters, ma qualcuno a cui ho fatto occasionalmente girare le palle l’ho avuto senz’altro. In realtà è un bel po’ che non succede più, anche perché la moda di mettere al rogo gli scrittori italiani è passata da un pezzo e il pubblico ha la memoria cortissima, soprattutto quello di internet. Ma alcuni discorsi venuti fuori di recente mi hanno fatto riflettere sulla situazione in generale, e mi è venuta voglia di prendere una sorta di posizione definitiva sull’argomento (definitiva si fa per dire, sono soggetto al naturale cambiamento di idee come qualunque altro essere umano, e nei giorni buoni lo ammetto pure). 

La ragione per la quale tendo a schivare la compagnia dei miei colleghi ha a che fare con l’ikigai.

Non farò finta di essere un esperto di cultura giapponese, cosa che non sono nemmeno da lontanissimo: che cos’è l’ikigai l’ho scoperto su Wikipedia, e pure di recente. Se non lo sapete già e non avete voglia di leggerlo (lo trovate qui, oppure qui in versione italiana più sintetica), lo schemino qui di fianco ne dà un riassunto abbastanza intuitivo. 
In sostanza, nella vita una persona può fare – o trovarsi a dover fare – qualcosa che sa fare bene, qualcosa che ama davvero, qualcosa di cui il mondo ha bisogno, qualcosa che gli dia da vivere, o varie combinazioni di questi quattro elementi: l’incrocio tra quel che sai fare bene e quel che ti dà da vivere produce una professione, l’incrocio tra quel che sai fare bene e quel che ami produce una passione, e così via. Da notare che gli ultimi due elementi si possono intendere in varie accezioni: “quello di cui il mondo ha bisogno” può essere anche soltanto quello che è utile alle persone che ti sono care, che migliora la vita della tua tribù personale (il tuo “piccolo mondo”), non per forza qualcosa che cambia l’umanità intera. Allo stesso modo, “quel che ti dà da vivere” non consiste solo in denaro per pagarsi vitto, alloggio e collegamento internet ma anche – e spesso soltanto – in autostima, notorietà, plauso del pubblico o intima soddisfazione per un lavoro ben fatto. 
Nel punto di incontro di tutti e quattro i fattori c’è quello che in Giappone si chiama ikigai, ovvero “lo scopo vero della mia vita”, “la ragione che mi fa alzare dal letto la mattina”: quella singola cosa che amo sinceramente fare, che per talento e/o apprendimento so fare bene, che in qualche modo migliora il mondo attorno a me e che foraggia a vari livelli la mia esistenza. 
Mi rendo conto che uno schematismo come questo è contestabile e attaccabile da più lati, ma per amor di discussione fate finta assieme a me che le cose stiano esattamente così. 
Io credo – e non sono il solo a crederlo – che per buona parte di noi individuare il proprio ikigai sia tutto meno che una passeggiata. Io il mio non l’ho ancora trovato, e adesso che ho quarant’anni suonati la sua assenza ha cominciato a farmisi sentire come uno squillo acuto nelle orecchie, peggiore di qualunque sveglia mattutina. Di certo nei miei anni di maturità non mi sono impegnato abbastanza nel cercarlo, e ora posso solo sperare che non sia tardi e metterci tutto l’impegno che ho trascurato di metterci prima. 
Una cosa, però, la so per certa: scrivere non è il mio ikigai
Spesso ho amato farlo (soprattutto in passato); c’è chi sostiene che io lo sappia fare bene (al di là di qualunque razionale autovalutazione, questa è una cosa che non spetta né spetterà mai a me stabilire); mi dicono che in qualche caso ha “giovato alla vita” di chi mi leggeva (nel senso che gli ha fatto passare qualche ora di gradevole tempo libero); non mi ha mai dato da mangiare né notorietà degna di questo nome, ma non negherò che mi abbia dato più di una soddisfazione in senso umano.
Tuttavia – ed è un tuttavia grande come una montagna – per me questi elementi non si combinano in un vero ikigai. Non sono sufficientemente costanti, non hanno mai raggiunto una significativa massa critica. Molto semplicemente, non sono abbastanza. 
Non me ne vanto e non me vergogno: constato che è così e vado avanti nella mia ricerca (senza per questo smettere di scrive, per il momento). 

Ed eccoci arrivati al punto: la stragrande maggioranza degli scrittori che ho conosciuto nella mia vita – e intendo proprio la stragrande maggioranza – dà assolutamente per scontato che scrivere sia il suo ikigai, lo proclama ogni volta che ne ha occasione e guai al povero pazzo che si mette in testa di sostenere il contrario. 
Non negherò di certo che per alcuni sia così davvero. Ne saprei anche indicare qualcuno per nome: singoli colleghi e colleghe che ho conosciuto abbastanza bene da poter dire che sì, sul serio vivono vite in cui il perno cardinale dell’ikigai è realmente – e non solo per un’allucinazione autoindotta – la scrittura, con tutto quel che ne consegue. Ma sono una strettissima minoranza, casi davvero rari* (e che personalmente non invidio). 
Per tutti gli altri, spiacente ma si tratta di quel che ho indicato poco sopra: un’allucinazione autoindotta. Ogni tanto, se le circostanze mi sembravano favorevoli, ho invitato esplicitamente scrittori di mia conoscenza ad analizzare con spietata obiettività il loro rapporto con i quattro componenti dell’ikigai, per vedere se le cose stavano davvero come erano abituati a pensare. Alcuni (pochi) dopo mi hanno ringraziato. Altri mi hanno preso in giro. Altri ancora (di più) si sono incazzati. 
Se si decide di farsi questa domanda, i punti da analizzare meglio a mio avviso non sono nemmeno i primi due, l’amore e la competenza (ovvero i tappi di due Vasi di Pandora pronti a scatenare il caos sul mondo), ma gli ultimi due, l’utilità generale e la ricompensa ottenuta. La mia scrittura “serve” davvero a qualcosa? I cambiamenti che provoca sono significativi almeno per il mio “piccolo mondo”? Mi rende indietro le energie di cui ho bisogno per vivere bene? Se lo faccio per i soldi, mi fa guadagnare abbastanza? Se lo faccio per sentirmi battere le mani, l’applauso è abbastanza forte da farmi dormire sereno? Se lo faccio per l’intima soddisfazione personale, la sento che arriva? Se nel presente non ho ancora queste cose, è sensato ritenere che le potrò avere in futuro se mi impegno abbastanza? E una volta che le avessi, posso lecitamente supporre che sarebbero davvero quello che stavo cercando? 
Al netto di tutto questo, va da sé che per scrivere non c’è nessun bisogno che scrivere sia il tuo ikigai. Né per scrivere bene, o per scrivere con successo, o per scrivere provando gusto nel farlo. L’ikigai può essere il perno della vita, ma la vita non è fatta di solo ikigai

Insomma, ecco spiegato perché in generale – con tutte le eccezioni del caso – evito di frequentare i miei colleghi scrittori: perché è noioso parlare con i sonnambuli.


* Molti lettori di questo post mi hanno chiesto di dire chi sono. Non lo farò, ma vi dirò quanti sono: tre