lunedì 14 marzo 2016

Che cosa NON è uno sciamano (secondo me)


Da quando mi sono messo a parlare in pubblico di sciamanesimo – un tempo che ormai va misurato in anni – ho raccolto in giro reazioni molto diverse, ma ce n’è un gruppo in particolare che alla lunga mi ha fatto decidere di fare un paio di serene precisazioni, che riguardano tanto lo sciamanesimo in generale quanto me che in un modo o nell’altro ne faccio parte. 

Punto primo: nonostante il nome del mio blog, che è un gioco di parole e un tributo d’affetto, io non sono uno sciamano
Come spiego anche nella mia presentazione, tanto per cominciare presso molte popolazioni native nessuno può decidere di propria iniziativa di chiamarsi sciamano: è un titolo che può esserti attribuito solamente da qualcun altro, che sia un altro sciamano, la gente della tua comunità o simili, e solo in onore ai risultati pratici che ottieni. Cosa ancora più importante, per essere sciamani bisogna passare attraverso un’esperienza intima di profondo, radicale cambiamento, dopo la quale non ti possono restare dubbi sul fatto che nella tua vita è successo qualcosa di fondamentale. 
Io spero di essere uno sciamano un giorno, ma per ora sono soltanto uno studente teorico e pratico di sciamanesimo, ossia quello che in termini moderni si definisce uno shamanic practitioner: una persona che impara e usa tecniche dello sciamanesimo, contenta di lasciare così le cose o in attesa e alla ricerca del momento in cui avverrà anche per lei un cambiamento radicale (io appartengo al secondo gruppo). 

Punto secondo: praticare lo sciamanesimo non ti rende automaticamente una persona migliore
Secondo la definizione che io trovo più calzante (ma anche se fate ricerche per contro vostro non ne troverete molte altre, provateci se non mi credete), lo sciamanesimo è un insieme di tecniche, che presuppone l’accettazione di una serie di principi e si propone di ottenere determinati risultati pratici. Di per se stesso non è una fede religiosa, anche se può diventarlo o integrarsi in fedi già presenti. 
Certamente è anche una disciplina di vita e un sentiero di ricerca spirituale e quindi, come tutti i sentieri di questo tipo, dovrebbe – almeno in teoria – aiutarci a migliorare sul piano umano, ma non c’è nulla di automatico o di inevitabile in questo. Essere uno sciamano non equivale a essere un illuminato: uno sciamano non è necessariamente più buono, più saggio, più altruista, più paziente, più compassionevole né tantomeno più intelligente delle persone che lo circondano (almeno nella mia esperienza, ma fidatevi che in campo di esperienza ne ho). 
In questo senso specifico, lo sciamanesimo non è diverso da tante altre discipline interiori. Un bravo sciamano è proprio come un bravo buddista, un bravo cattolico, un bravo yogi o un bravo razionalista che si dedica con impegno e passione alla sua ricerca scientifica. Ma siccome nella nostra società uno sciamano – o anche solo un semplice shamanic practitioner – è qualcosa di più esotico di un buon cristiano o di un maestro di yoga, in tanti tendono a trattarlo come una “persona superiore” a prescindere. 
E non c’è nulla di più sbagliato. 
Per scendere sul piano personale, tutto quel che ho scritto qui sopra si applica al 100% anche a me. Io pratico lo sciamanesimo, e questo non mi rende un maestro di saggezza: come molte altre persone che conoscete tutti, ho simpatie e antipatie ingiustificate, reagisco in base a pregiudizi automatici, dico idiozie, mi incazzo anche quando ho torto, racconto balle, mi annoio, perdo tempo, non credo a tutto quello che mi raccontano, mi offendo senza valido motivo, mangio troppa nutella e a volte tradisco la fiducia delle persone che mi vogliono bene. Non sono particolarmente orgoglioso di nessuna di queste cose e se ci riesco tento di non farle, ma sono nella stessa identica barca in cui siamo tutti. Sì, anche se posso andare in trance, parlo con gli Spiriti o so costruire un feticcio. 
Magari un giorno (lo spero) le cose cambieranno anche per me, e a quel punto forse mi sentirete fare discorsi diversi. Fino ad allora, passatemi un remo, che la riva è ancora lontana.

mercoledì 9 marzo 2016

Revisionary: Jim C. Hines e l'arte di riscrivere la realtà (con i maghi e qualche mostro)


Ed ecco un post che arriva in ritardo (e non solo perché, colpevolmente, è da un mese che non scrivo qui sul blog…) 
Due settimane fa ho finito di leggere Revisionary, quarto e tristissimamente ultimo volume della saga urban fantasy Magic Ex Libris di Jim C. Hines, uscito a febbraio di quest’anno. Per due settimane ho continuato a ripetermi ogni giorno “Domani ci scrivo un post, è importante!”… finché è arrivato il giorno di ieri e la mia carissima Aislinn, che nel frattempo ha finito il libro a sua volta, ne ha scritto uno prima di me. Dicendo tutto quello che intendevo dire io, e dicendolo meglio di quanto lo avrei saputo dire io.
Questo mi porta a tre riflessioni. 
La prima è: leggete il post di Aislinn, ne vale la pena
La seconda è: almeno questa involontaria “pungolatura” mi ha spinto a scrivere il post che avete sotto gli occhi (bionda, ti devo una Guinness ;-) 
La terza è: grazie a tutto quel che è già stato detto il mio post sarà più breve del previsto, e mi sono reso conto che voglio virarlo su due punti – entrambi già toccati da Aislinn – che mi stanno particolarmente a cuore. 


Jim C. Hines
Chi mi segue sa già (me lo avrà sentito ripetere alla nausea) che io considero Jim C. Hines uno dei più grandi autori di urban fantasy viventi. Se non sapete perché o volete rinfrescarvi la memoria, ne ho parlato qui già due anni fa, quando avevo appena scoperto il suo primo libro. In questi tre anni ho rimuginato all’infinito sui volumi della saga Magic Ex Libris, che mi hanno fatto ridere, piangere, incazzare, meditare, emozionare come pochi altri (forse come nessun altro) nell’ultimo decennio della mia vita. E sono giunto alla conclusione che per me quel che rende le storie di Hines più potenti di ogni altra – a parte la divina inventiva, a parte la scrittura di un’elegante essenzialità, a parte le trame a prova di bomba, a parte i personaggi strepitosi, a parte le mille adorabili citazioni che sono una vera e propria celebrazione della cultura nerd – è la combinazione due elementi: la volontà di portare le cose fino alle conclusioni estreme e la capacità di usare questo eccesso per parlare del mondo reale. 
Come ha fatto già notare Aislinn, i libri di Hines sono l’esempio perfetto di come si possa impiegare il fantasy per parlare della realtà (in maniera elegantissima, vorrei aggiungere, e senza togliere un solo grammo alla potenza di entertainment di ogni singola storia). Hines ha scelto di farlo con un sistema affascinante, semplice e nel contempo potentissimo: trascinare i concetti fin dove possono arrivare, e vedere cosa succede a quel punto. 
L’esempio forse migliore è il personaggio di Lena, la driade coprotagonista della serie. Dietro alla sua nascita c’è una domanda ben precisa e ben intuibile: cosa succede se rendiamo concreta e reale una figura molto tipica dei paranormal romance, ovvero la ragazza soprannaturale che esiste al puro scopo di dar piacere ai suoi amanti e si modella persino fisicamente (volente o nolente) sui loro desideri? 
Succede che Hines, in quattro libri, ne tira fuori una straordinaria storia di crescita umana, una riflessione acuta su cosa realmente possano essere il senso di identità e il libero arbitrio personale, una critica spietata all’immagine femminile nella società occidentale (e vale la pena di ricordare che i paranormal romance, con i modelli femminili che propugnano, sono letture espressamente dirette non a un pubblico di uomini arrapati ma a uno di ragazze adolescenti…) e un inno alla libertà di scelta potente come solo certe poesie o certe canzoni riescono a essere. 
Non contento di ciò, Hines non si ferma e usa la convivenza tra esseri umani e creature non umane per parlare di razzismo (e questo è già stato fatto migliaia di volte), usa la scoperta della magia da parte del mondo per mettere sotto pesante accusa il sistema sanitario americano (e questo ditemi un po’ voi dove altro lo trovereste), usa licantropi, sirene e vampiri per parlare di terrorismo internazionale e dei mezzi – giusti e sbagliati – con cui i governi tentano di fronteggiarlo. E in Revisionary fa usare ai villain della storia la relazione poliamorosa in cui vivono i protagonisti – un argomento che in un’Italia impegnatissima a discutere di unioni civili e uteri in affitto fa talmente accapponare la pelle che non se ne parla neppure, come se non esistesse – come leva per tentare di dimostrare che sono “elementi indesiderabili in una società”, persone moralmente inferiori, dei diversi da rendere innocui perché non contagino il resto del mondo (magari con i lager, perché no? È stato già fatto…) 
E tutto senza mai citare per nome una sola volta queste questioni. Perché non sono loro il focus della storia. La storia parla di avventure, di magia, di mostri, e ne parla – lo voglio ripetere – in modo straordinariamente divertente. 

Io non sarò mai come Hines. 
Mi mancano le palle, mi manca la pazienza, mi mancano il fuoco e l’intensità straordinaria che emanano dalle sue pagine (e mi manca anche un Paese con un mercato editoriale minimamente capace di valorizzare queste cose, ma questo è un altro discorso). 
Per questo dico che di autori come Hines ne voglio di più, atrocemente di più. 
No, mi sono espresso male. Di autori come Hines ne servono di più. Ce n’è un bisogno acuto, disperato, che dovrebbe tenerci svegli la notte. 
Perché nel nostro piccolo, pericolante mondo mentale, assediato ogni giorno dall’insostenibile idiozia del mondo esterno, avvelenato dalla sua stessa produzione continua (e continua consumazione) di materiale tossico, saccheggiato da Hollywood e trasformato in un prodotto da fast food, gli Hines sono un’ancora di salvezza, e una roccia a cui agganciare l’ancora. Emergono fuori dall’acqua, sempre e comunque, e l’acqua che schiuma e ruggisce furiosamente contro di loro non fa che renderli ancora più evidenti. 
Finché ci saranno loro, io so che non andremo a fondo.