Quasi quattro mesi senza pubblicare nulla. Sono indecente e lo so.
I miei propositi di aggiornare il blog con un minimo di regolarità naufragano sistematicamente, ma a mia (parziale) discolpa non è che non ci provi. In questo periodo, a tenermi lontano da qui non è stata la “solita” mancanza di tempo, ma un problema più difficile da maneggiare: un vero caso di magical burnout, ovvero quando ti sei dedicato troppo a un certo argomento (magia e occultismo nel mio caso) e di colpo ti rendi conto di non poterne più. Se vi è mai successo qualcosa di simile, sapete che può accadere anche con le cose che sono davvero importanti per voi – sì, ci si stanca persino di quelle – e che l’unica cura è darci un taglio per un po’. Io non ne sono ancora uscito del tutto (questo non è un periodo facile per la mia vita mentale, non lo nasconderò), ma anche ricominciare a scrivere qui è un modo – o perlomeno un tentativo – di rimettersi in carreggiata.
Magari questa volta andrà meglio. O magari ho davvero esaurito le cose da dire, o la voglia di dirle. Almeno ci proverò ancora una volta.
Lo spunto per riprendere – perché uno spunto serve – mi viene dall’aver sentito per l’ennesima volta qualcuno affermare (con l’immancabile tono di superiorità un po’ schifata) che la Chaos Magic è “quella tradizione che si inventa le magie”.
Ora, proviamo a tirare un lungo respiro e a guardare la cosa con uno strettissimo inquadramento storico. E intendo davvero stretto, così non si stressa nessuno: diciamo una dozzina d’anni.
Nel biennio 2006-2008 nel campo della magia postmoderna uscivano libri come il Pop Culture Grimoire di Taylor Ellwood (2008), che incoraggiava i maghi del Ventunesimo secolo a evocare spiriti con l’aspetto dei Pokémon anziché dei tradizionali elementali, o a considerare le implicazioni iniziatico-sciamaniche del plot di Neon Genesis Evangelion. O The Paradigmal Pirate di Joshua Wetzel (2006), che illustrava malefici costruiti sui miti egizi, quelli norreni, quelli cristiani e quelli di Lovecraft, tutti in una volta. O ancora il bellissimo Magic, Power, Language, Symbol di Patrick Dunn (2008), che spiegava come parlare ai demoni usando i principi della linguistica o creare incantesimi basati sulla semiotica.
Con un salto nel tempo veniamo invece agli ultimi due anni, cui la stessa “scena esoterica internazionale” vede l’uscita di testi come il monumentale The Seven Names of Lamaštu di Jan Fries (2017), dettagliatissima disamina di alcuni aspetti della magia dell’antica Mesopotamia (con tanto di esercizi pratici), o le affascinanti opere di Gordon White, Star.Ships: a Prehistory of the Spirits e Pieces of Eight (entrambi 2016), dove si cerca di tracciare le remote origini della magia all’alba della storia umana e si ripropone l’impiego magico – con moderna consapevolezza “caosiana” – dei più tradizionali elementi della cultura spirituale mainstream dell’Occidente, dal culto dei santi al battesimo cattolico.
Qual è il punto di questo confronto? Mostrare che la Chaos Magic (o più in generale la magia postmoderna, di cui la Chaos Magic è solo un aspetto) era più propensa a “guardare i cartoni animati e inventarsi le cose” nei primi anni Duemila, mentre oggi fa marcia indietro e si riscopre una gran voglia di studiare la storia, in una sorta di coming of age dall’adolescenza all’età adulta?
Per parte mia no. Sarebbe atrocemente riduttivo.
Se da un lato anche la magia, come qualunque fenomeno culturale, è soggetta a oscillazioni, a periodici cambiamenti di rotta, a fasi che si potrebbe (non sempre lecitamente) chiamare “mode”, dall’altro lato il pensiero magico contemporaneo non fa nulla di diverso da quello che il pensiero magico ha sempre fatto: reinterpretare.
“Inventarsi le magie” è l’operazione più antica del mondo: ogni epoca, ogni civiltà, ogni religione a un certo punto (e spesso in ben più di un unico punto) ha inventato le proprie magie, che sono diventate “tradizione” solo dopo che il tempo e la storia le hanno spinte in quel limbo mitico e irraggiungibile che è “il passato”.
Certo, sono sempre esistiti maghi convinti che sia lecito solo praticare quel che le tradizioni trasmettono altrimenti i loro Dèi (e i loro insegnanti) si incazzano male. Che solo gli incantesimi scritti nel Supremo Grimorio dell’Arcimago Morto da un Numero Sufficiente di Secoli possano fare qualcosa di utile per le nostre vite. Che cambiare le parole del Grande Rituale Supersegreto porti dritto al fallimento nel migliore dei casi e alla catastrofe nel peggiore. Così come sono sempre esistiti i maghi che, spinti da mille ragioni diverse, hanno fatto tutte queste cose e altre anche “peggiori”, finendo non di rado per dare origine a nuove tradizioni.
(Intendetemi, non sto prendendo nessuna posizione in merito, se non quella che il banco di prova di qualunque forma di magia è sempre e solo la realtà pratica: un incantesimo o funziona o non funziona, e nel secondo caso l’unica cosa da fare è domandarsi “Perché?”)
Il Vudù non si fa problemi a usare quel che ha a disposizione |
Dal canto suo la Chaos Magic, tornando al nostro caso specifico, non ha inventato proprio niente. La sua abitudine di “fare magia con quel che uno si trova in casa”, dalle caramelle alla menta alle idee prese da un telefilm di Netflix, è vecchia quanto l’uomo.
Tanto per fare un esempio che mi è caro, quando nei Caraibi di tre secoli fa i primi stregoni Vudù misero insieme i loro rituali, non pretesero di riavere le stesse erbe, le stesse conchiglie, gli stessi sacrifici che i loro nonni maneggiavano da tempo immemorabile in Africa: si arrangiarono con quel che trovavano nelle loro capanne da schiavi, che fossero conchiglie dei mari d’America o erbe delle piantagioni o rhum da versare in sacrificio per gli Dèi. Oppure prendete la più famosa tra tutte le forme di magia postmoderna: i sigilli. Una creazione di Peter Carroll o di qualche altro chaos magician “delle origini”? No di certo: l’idea di base, come è ben noto, è di Austin Osman Spare e risale ai primi del Novecento, ossia quasi settant’anni prima che si cominciasse a parlare di Chaos Magic.
Quel che è veramente cambiato, semmai, è che in passato l’impulso a “inventare”, ad adattare, a reinterpretare era il più delle volte figlio della necessità (si veda l’esempio del Vudù di cui sopra), mentre nella nostra epoca deriva molto più spesso da una libera scelta.
Il che tuttavia non lo rende meno lecito, se inquadrato in un’ottica ben precisa: quella di chi sa che cosa sta facendo. Per dirlo in altri termini, in cucina chiunque può inventare nuovi piatti, fintantoché non si mette a mescolare ingredienti a caso ma sa che sapore hanno gli ingredienti di base e tenta di immaginare nuovi modi per combinarli.
Per tirare le fila del discorso, è necessario non dimenticare che la Chaos Magic, contrariamente alla definizione che se ne sente dare spesso, non è una tradizione magica: è piuttosto una teoria generale della magia, una griglia attraverso la quale guardare i fenomeni magici (potenzialmente tutti i fenomeni magici) e capire come funzionano, e perché.
In una recente conversazione con il mio saggio amico Mauro Ghirimoldi notavamo come qualunque cultura, in qualunque epoca o luogo del pianeta, può produrre una teoria generale della magia, ovvero dare una spiegazione sua, coerente in se stessa, di tutti i fenomeni generalmente etichettati con quella brutta parola che è “il soprannaturale”. L’animismo, ad esempio, può senz’altro essere una teoria generale della magia: in ogni cosa esistente, dalle nuvole ai ciottoli, vive uno spirito, e allacciando rapporti con questi spiriti anche l’essere umano può manipolare i fondamenti della realtà (sto ovviamente semplificando all’estremo, e di certo vi verranno in mente molti altri esempi possibili).
Assodato ciò, è altrettanto vero che non tutte le teorie generali della magia sono ugualmente buone. La teoria ipoteticamente prodotta da una cultura poco esposta a forme magia per lei “esotiche” farà più fatica a spiegare fenomeni nuovi quando li incontra: sulla scorta dell’esempio di cui sopra, usare la cosmologia animistico-sciamanica di una tribù della Foresta Amazzonica per spiegare l’astrologia babilonese potrebbe porre dei problemi.
Quali sarebbero, dunque, le teorie generali della magia più onnicomprensive e quindi più adatte a “dare una spiegazione di tutto”? La risposta è: di solito quelle prodotte dalle culture più esposte al mondo esterno e alle sue mille sfaccettature. E la Chaos Magic, in quanto pensiero magico figlio dell’era della globalizzazione, è con ogni probabilità quella che si qualifica meglio per il ruolo, almeno per il momento.
Con questo sto dicendo che la Chaos Magic è la griglia di interpretazione definitiva di tutta la magia esistente, e che i maghi postmoderni sono gli unici nella storia umana “ad aver capito tutto”?
No di certo. Come affermazione sarebbe una solenne idiozia.
Non diversa dal pensare che non si possa innovare costantemente la pratica magica, o che non lo si sia sempre fatto.
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