Oggi alla Capanna succede qualcosa di nuovo: arriva un ospite!
L’articolo che segue è stato scritto appositamente per il mio blog da un carissimo amico, rispettabile studioso del mondo dell’invisibile e persona di cui ho sempre ammirato la profonda spiritualità, che qui per ragioni di privacy sceglie di firmarsi Henry David Eckhart. Non posso che ringraziarlo di vivo cuore per il regalo che mi ha fatto, e sperare che le sue sagge parole affascineranno voi che leggete come hanno affascinato me.
I concetti espressi sono al 100% suoi: ho rispettato totalmente il testo che ho ricevuto, dai corsivi ai grassetti alle citazioni. Solo le illustrazioni sono un’aggiunta mia, per “spezzare” un po’ il testo, come faccio abitualmente. E se alcune delle idee qui esposte possono non coincidere del tutto con le mie, cionondimeno le reputo più che meritevoli di essere messe sotto gli occhi di quanti più lettori possibile. Si tratta di concetti importati per chi oggi pratica un certo genere di spiritualità, e di riflessioni che troppo spesso nessuno di noi ha voglia di portare alle loro estreme (e non sempre piacevoli) conseguenze...
Prima di lasciarvi all’articolo, colgo l’occasione per ricordare che, se qualcun altro avesse voglia di scrivere qualcosa per la Capanna dello Sciamano, non ha che da contattarmi in privato (su FB o altrove) e ne possiamo parlare! Io sono sempre aperto e disponibile alla collaborazione, e sapere che c’è chi ha piacere di vedersi pubblicato in questo spazio mi fa soltanto contento.
Fear the Gods, fear yourself
Essere ospite di questo blog è un onore. Apro ringraziando Luca Tarenzi per la possibilità, che è altresì una responsabilità, perché andrò a toccare un argomento in parte in controtendenza rispetto ai contenuti che Luca ha scelto di promulgare finora. Se infatti avete letto queste pagine con una certa regolarità, fate parte di coloro che – ognuno a modo proprio – stabilmente o per brevi momenti, hanno accettato l’idea dell’esistenza degli dèi e della possibilità di interagire con loro per innescare dei cambiamenti in noi e nella realtà circostante.
È una premessa necessaria, come il riconoscere che si tratta di religiosità, e che non è invero dissimile a quella di tutti i praticanti religiosi di tutti i tempi, quali che siano i nomi e il numero dei loro dèi, le loro religioni ufficiali, la loro ortodossia o eterodossia etc. Siamo umani, e se l’idea e la pratica di Dio sussistono nella nostra organizzazione del reale, vuol dire che in qualche modo funzionano. Ma in che modo funzionano? Lungi da me investigare su ciò che non può essere dimostrato (cosa sono gli dèi), mi limiterò a parlare dell’esperienza empirica del mio rapporto con loro, conscio del fatto che se si conosce a fondo se stessi si conosceranno gli uomini tutti.
Vi è infatti un assioma psicologico principale alla base del rapporto con gli dèi: le motivazioni che portano gli umani a cercare il divino. A tal riguardo, Krasskova (2009) individua cinque funzioni chiave della “preghiera”: Thank you (, God); I love you (); I am sorry (); I hail Thee (); e – soprattutto, immagine ultima della condizione umana – Please, God. È su quest’ultima necessità che più spesso il così detto “neo-pagano” si rapporta al divino, soprattutto se a questa ricerca si accompagna una sperimentazione di pratiche magiche. Ottenere. Ottenere cosa? Ottenere ciò che non si ha; ciò che si desidera e che, se non ottenuto, ci condannerà all’infelicità. E per ottenere bisogna dare. È una legge fisica, ancor prima che psichica, semiotica e magica. Ma è qui che le cose si complicano.
Per esplicitare il nostro rapporto con gli dèi; per dare forma al please e concretizzarlo, abbiamo bisogno di ritualizzare. Tramite il rito, quale che sia, si offrono energie, nella speranza (fede) che si otterrà qualcosa in cambio. Funziona. A volte. Grazie alla nostra mente, per vie imperscrutabili, senza che possiamo spiegarci perché e come; oppure non funziona. Ma potrebbe funzionare un’altra volta, quindi noi rimaniamo in prima linea. C’è però un problema: noi. Se riconosciamo che impiegare energie porta dei risultati, ne risulta la convinzione che maggiori saranno le energie impiegate, maggiori saranno i risultati. Ottimo.
Finalmente ci si sente padroni della propria realtà; finalmente, quell’angosciante senso di impotenza verso il contesto in cui viviamo si squarcia. Sinché questo ci mette a nostro agio, non c’è problema. La via del praticante solitario (cit.) procede. Più si ottengono “risultati”, più la giustificazione della “fede” si corrobora, e più energie si investono. Poi succede. Succede sempre, un giorno o l’altro. Succede che qualcosa non va come avevamo preventivato, e la medaglia si rovescia con subitanea drammaticità: “Cosa ho sbagliato?” Ed è in questa domanda che la componente psicologia della fede mostra la sua gemella siamese: la paura.
Fateci caso. Badate a ogni volta che vi siete sentiti a disagio nel valutare il cosa avreste potuto offrire di più o meglio agli dèi per ottenere ciò che volevate; e, seguendo questa via, ricordate quando avete iniziato a ritualizzare non per ottenere, bensì per il terrore che – non ritualizzando a dovere – si manifestasse nella vostra vita del “karma” negativo, un ritorno entropico di energie, un “castigo” divino. Ed è allora che inizia ad accadere. Non ve ne accorgete, perché ci siete dentro sino al collo, e in fondo vi dà qualcosa. Iniziate a parlare della vostra fede in maniera sempre più seria; l’ironia nei suoi confronti vi irrita e offende; il vostro altare diventa più grande; le vostre ricerche esoteriche più intense; le vostre pratiche meditative più lunghe e complesse. Le vostre offerte diventano storiograficamente comprovate; ricercate materiali, oggetti, suppellettili, componenti animali, sigilli; sacrificate cibo (cibo!), versate bottiglie, spillate sangue vostro o altrui (…), perché in questo modo il rituale pare più solido, più efficace, gli dèi lo gradiranno. Poi arriva il giorno. Il giorno in cui Dio, o quello che voi ormai avete edificato a vostra immagine e somiglianza, vi dice di andare sul monte, e di sacrificare Isacco.
Full stop.
Allora, subitaneamente, con intensità lampante, se siete abbastanza furbi o fortunati, aprite finalmente gli occhi su cosa state facendo.
E lo state facendo voi. Soltanto voi. Il fine perduto tanto tempo fa, sommerso dai mezzi, che hanno creato fini propri. Ma è in questo esatto momento che Dio ferma la mano di Abramo. È in questo momento che Gesù entra nel Tempio e pianta un casino da far fischiare le orecchie a duemila anni di distanza. È in questo momento che un tale Siddhartha Gautama, tanto tempo fa in Oriente, sorride sornione, si siede a gambe incrociate e inizia a fare niente. È in questo momento che un tale Epicuro, nel mezzo del delirio iconico del politeismo greco, si gratta la barba perplesso e inventa il tetrafarmaco: un rimedio, filosofico, per disinnescare le quattro istanze fondamentali che impediscono all’uomo di vivere una vita serena. Perché di questo si tratta.
1) La paura della morte (irrilevante, perché quando c’è la morte l’individuo non c’è, e quando c’è l’individuo è la morte a non esserci); 2) la paura del dolore (se è lieve è sopportabile; se è acuto passa presto; se è fatale conduce alla morte – punto primo); 3) la mancanza del piacere (legata all’eccesso, al desiderio e alla mancanza di concentrazione sul qui e ora); 4) infine, tornando al nostro discorso, la paura degli dèi. Epicuro a tal riguardo è terribilmente chiaro e sorprendentemente attuale nel dibattito contemporaneo su cosa gli dèi siano o meno e che posto abbiamo sull’etica dell’esistere. Egli afferma:
Gli dèi non si occupano dell'uomo in quanto vivono negli intermundia, cioè in spazi situati fra gli infiniti mondi reali, e del tutto separati da questi; essi perciò non hanno esperienza dell'uomo:· Gli dei non vogliono il male, ma non possono evitarlo (gli dei risulterebbero buoni ma impotenti, non è possibile).· Gli dei possono evitare il male, ma non vogliono (gli dei risulterebbero cattivi, non è possibile).· Gli dei non possono e non vogliono evitare il male (gli dei sarebbero cattivi e impotenti, non è possibile).· Gli dei possono e vogliono; ma poiché il male esiste allora gli dei esistono ma non si interessano dell'uomo.La conclusione: gli dèi sono indifferenti alle vicende umane e si chiudono nella loro perfezione. (Fonte Wikipedia).
L’uomo guarda il cielo e non vede più fulmini in agguato o doveri per compiacerlo. L’uomo guarda il cielo e dice finalmente “Il cielo è bello”. E si potrebbe dire che è su questo germoglio di coscienza che nasce il monoteismo. Non il dogma, bensì il suo primigenio nucleo spirituale: la mistica. Quando l’illuminato, il profeta, rimuove il velo di Maya dai suoi occhi, egli capisce la “bugia divina”, e vede la realtà per quella che è: assenza totale di sovrastruttura semiotica. È lì, nella mancanza dell’idea di Dio, che è Dio. OK, stiamo un tantino vaneggiando, ma la natura del reale è ossimorica (Tao), ed è quello il punto. Per questo il Buddhismo non ha Dio; per questo Meister Eckhart “prega Dio di fargli dimenticare Dio”; per questo i dervisci danzano e al tempo stesso Gesù Cristo vince sui paganesimi del suo tempo: che piaccia o no al wiccano di turno, ridurre l’ascesa del cristianesimo a mera coercizione storico-politica dell’istituzione ecclesiastica è un modo molto comodo per non ragionare sull’evoluzione del pensiero religioso. Il figlio di Dio diventava finalmente l’Uomo. Ogni umano, e il suo diritto a vivere in pace e serenità, in una vita già difficile di per sé, che può fare a meno del terrore della superstizione, creato da noi stessi.
Ma noi stessi chi? Noi stessi come? Esattamente da quella parte del nostro cervello che riduce la natura ossimorica del reale a uno schema ossessivo-compulsivo di analisi binaria causa-effetto, A-B-A-B. Nel pantheon norreno, questo “circuito” cerebrale è Loki. Si badi, Loki fa parte degli dèi, è membro del pantheon, e non solo: porta agli dèi doni mirabili e strabilianti (la magia/tecnologia). Quando però gli viene dato il potere assoluto, egli scatena il Ragnarok. Ricercatelo, fatelo, in tutte le mitologie del mondo; e guardate negli occhi l’antropocene, il Kali Yuga che stiamo vivendo ora. “Porgete l’altra guancia”. Questione di pugni? Di compassione? No, questione che di fronte a un eterno ritorno A-B-A-B-, a un certo punto ad A si risponde con A, e B ci rimane di sasso; il cerchio è rotto, e si scorge, abbagliante, la libertà. L’epistemologia e la filosofia occidentali hanno chiamato ragione ciò che è sempre stato un fatale intelletto manipolatorio, sia nel micro – la psicologia – che nel macro – la società. Il macro tale perché fatto a immagine e somiglianza del micro.
Cosa vuole dire questa riflessione, infine? Semplice: stiamo morendo di semiotica. La nostra semio-sfera, a cui anche gli dèi appartengono, ha ormai preso vita propria. Si è staccata dal reale, inteso come l’uomo e i suoi bisogni fisici ed emotivi essenziali, e procede in maniera ossessivo-compulsiva a causa della nostra incapacità di scorgerla come tale; a causa della nostra immedesimazione. Le ripercussioni sulle nostre vite, considerando anche gli sviluppi distopici delle nuove tecnologie, esulano da questo discorso, ma le si può intuire.
Rimane un monito, un monito vecchio di millenni, che continuiamo a ignorare, ma che dovrebbe essere valido ancor più per coloro che si avvicinano alla religiosità (e alla magia) con cuore (si spera) puro: state facendo tutto voi. State decidendo se credere o no; a cosa credere e come crederci. Quindi, semplicemente, guardatevi da fuori. Se cosa state facendo vi crea disagio, non fatelo. Se iniziate a credere che senza la vostra magia il mondo si fermi, fermate la vostra magia e scoprite quanto siete magici senza. Se una qualsiasi parte della vostra spiritualità vi sta facendo perdere il sorriso e la leggerezza, smettetela. Lo state facendo voi. Voi soltanto. E se per soddisfare gli dèi che voi stessi state creando vi preoccupate – in un mondo che muore – di offrire risorse all’eccesso, anziché badare piuttosto alla riduzione del vostro impatto sul mondo stesso, pensate che la vostra religiosità (che state deliberatamente scegliendo) sta compromettendo il futuro della specie.
Ed è qui che il “mago” esaurisce la sua funzione. Faust viene perdonato, perché cercava l’infinito, ma nella maniera sbagliata. Anche Odino, in realtà, riguardo alle rune, che pur egli stesso donò al mondo, nell’Edda metteva in guardia:“Do you know how to write? Do you know how to read? Do you know how to tint? Do you know how to try? Do you know how to ask? Do you know how to offer? Do you know how to send? Do you know how to slaughter?”
Chi siamo noi per sapere? Chi siamo per agire così in grande? Quale parte di noi sta comandando quando ci prendiamo l’abnorme responsabilità di voler ottenere? Di indagare ciò che non ha nessun bisogno di essere indagato? Quali saranno le ripercussioni? A chi toglieremo? Ed è così che ci riscopriamo non teurghi, ma umile, piccola e lieta parte di Dio. Tutti uguali. Tutti sulla stessa barca, alla deriva perché anziché badare alla rotta elucubriamo su cose che non dovremmo far esistere. Noi, popoli liberi della Terra di Mezzo. Noi, Mordor. Ma soprattutto, noi Rohan: chiusi ognuno nel proprio giardino, perché ciò che accade fuori non deve turbare il pavido, piccolo, prezioso “benessere” che ci siamo ritagliati. In quello che si potrebbe a buon diritto considerare il testo sacro più brillante e influente della modernità, Il Signore degli Anelli – sincretismo massimo tra la pregnanza della cosmogonia norrena (gli dèi mortali) e il messaggio evangelico (l’uomo figlio di Dio) – non a caso non ci sono dèi. È una lotta contro l’estinzione, nostra e solo nostra; e comincia dai nostri altari. Eretti in onore di Rha, Ishtar, Bacco, la Apple, Facebook, Netflix o PornHub non importa. Stiamo attenti a ciò a cui tributiamo sacrifici. È la nostra unica, e ultima, scelta.
Henry David Eckhart
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